Matthew E. White e Lonnie Holley, folk sudista avant-garde
Il produttore della Virginia e l’artista dell’Alabama collaborano sulla scia del Davis elettrico
La storia è andata così… Intenzionato a distanziarsi dai suoi precedenti lavori da solista, nel 2018 il produttore e discografico Matthew E. White portò in studio una band di sette elementi, invogliandola a improvvisare nello spirito del Miles Davis elettrico: scelta comprovata dalla robustezza della sezione ritmica, composta da quattro strumentisti.
E tuttavia, dopo aver indossato i panni del Teo Macero della situazione, tagliando e cucendo i risultati delle session, White accantonò le registrazioni, non sapendo come utilizzarle.
L’anno seguente, insieme ad altri musicisti, si ritrovò ad accompagnare in un paio di occasioni le performance di Lonnie Holley: eclettico artista afroamericano dalla vita rocambolesca, noto anzitutto per le sculture in pietra arenaria e oggetti di recupero, che dal 2012 aveva dirottato il proprio estro in senso musicale, realizzando tre album, mentre un quarto – National Freedom – sarebbe uscito nel 2020.
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Allora scoccò la scintilla: White sottopose a Holley il materiale messo in disparte, invitandolo ad aggiungervi la voce. Detto, fatto: il vecchio Lonnie – ora settantunenne – s’immerse in ciò che lui chiama “l’oceano del pensiero”, ossia i quaderni dove annota gli appunti, e ne trasse ispirazione per esprimersi a “stile libero” davanti al microfono, captato in presa diretta, genere “buona la prima”.
L’esito, immortalato in Broken Mirror – A Selfish Reflection, opera che celebra il decennale dell’etichetta Spacebomb, è impressionante: valga a dimostrarlo il brano da cui prende titolo.
Lo “specchio rotto” è quello di uno dei millanta dispositivi che riflettono le nostre proiezioni narcisistiche nell’arena planetaria dei social media: tema ricorrente nella narrazione di Holley, accanto all’esortazione a un risveglio delle coscienze, enunciata qui all’epilogo con tono introspettivo in “Get Up! Come Walk with Me”, e a guizzi di slancio astrale, incanalati in un flusso poetico che – memore di Last Poets e Sun Ra – cavalca in “I Cried Space Dust” l’onda di un vorticoso rullio di percussioni.
Sul canovaccio sonoro imbastito da White secondo il modello Bitches Brew, evidente nel cupo jazz funk dell’iniziale “This Here Jungle of Moderness”, s’innestano di volta in volta variazioni che incorporano nella trama le profondità del dub, la libertà formale dello “yes we Can” pronunciato da Holger Czukay e un gusto per il minimalismo elettronico che in “I’m Not Tripping” riecheggia addirittura i Suicide.
Il totale dà cinque tracce e quasi 39 minuti di musica che i protagonisti definiscono – riferendosi alle comuni radici geografiche – “folk sudista d’avanguardia”: qualsiasi cosa significhi, suona benissimo.