The Matt Project, fenomenologia del power pop
Il quarto disco di The Matt Project, tra rock eighties e funk
Fenomenologia del power pop. Etica ed estetica di un genere che genere non è. In tre parole: The Matt Project. Ovvero, Jury Magliolo (voce, basso, tastiere), Carlo Poddighe (voce, chitarre) e Matteo Breoni (batteria). Al traguardo (mica da poco) del disco numero quattro con Overnight, distillato in dieci tracce di pura attitudine eighties, in bilico tra martellanti aspirazioni rock e sapide sfumature black-funk. Le coordinate? Prince, Michael Jackson, Sly & the Family Stone, Mark Ronson e Artic Monkeys.
A mettere le carte in tavola ci pensano i diretti interessati. Anche se al felice quadretto viene da aggiungere, facendo qualche passo di lato rispetto ai santi protettori dichiarati alla dogana, gli inevitabili Steely Dan, i T Rex dell'epifania glam, l'altro Ronson, Mick (via Bowie), i Fleetwood Mac di Rumors (ma per assonanza chitarristica pure quegli altri che preferivano di gran lunga il blues), l'Electric Light Orchestra, Todd Rungren, i Police, gli Stones più sculettanti e un pizzico di buon vecchio garage. Parecchia roba, insomma. Frullata e compressa dentro un sound dritto, compatto, affilato macinando chilometri di palchi (quando ancora i palchi si poteva macinarli davanti alla gente), perfettamente a fuoco nonostante l'eterogeneo campionario di agganci e rimandi.
C'è già tutto (o quasi) nel brano che dà il titolo al disco, piazzato in apertura a mo' di dichiarazione d'intenti: riff micidiale a prenderti per il collo, batteria pastosa, atmosfera viziosamente notturna, coretti ruffiani. Si parte. “Talking About” sterza di brutto verso i Settanta; “Dancing in the Fire” arriva trafelata dalla Memphis dei Big Star con un disco dei Queen periodo calzamaglia sotto il braccio (Sheer Heart Attack o A Day at the Races, fate voi); “Smiling” profuma sensualmente di Manhattan; “Something About You” è un calcione negli stinchi assestato con il ghigno di chi la sa lunga. Ma è con “Running from the Beast”, la spettacolare “Morning” (Prince, Prince e ancora Prince!) e “Real Deal” che viene fuori l'anima black del trio, che sullo slancio chiude il cerchio con l'irresistibile “New York City”, congedo e apice di una scaletta elettrizzante.
Che rende pienamente giustizia alle miracolose sei corde di Poddighe, strumentista dotato di una duttilità e di una capacità di stare dentro la musica più uniche che rare, a una sezione ritmica implacabile e all'esplicita intenzione di preservare l'impatto live, riducendo al minimo l'editing e affidandosi al tepore dell'analogico. «Non siamo mai stati grandi fan di virtuosismi e sofisticazioni forzate: le imperfezioni ci fanno sentire vivi». Missione compiuta.