L'Inverna di Cristina Meschia

La cantante piemontese rilegge con sensibilità contemporanea il repertorio milanese di Nanni Svampa (e dintorni)

Cristina Meschia Inverna
Cristina Meschia
Disco
world
Cristina Meschia
Inverna
Regione Lombardia / Ird
2018

La nostra è da tempo una società non più contadina (se non in termini di inconscio), non ne abbiamo più le pratiche e le conoscenze (oltre che le ingenue e magiche credenze), forse nemmeno più industriale, l’epoca delle grandi dismissioni e dei suoi lacerti sembra già lontana, speriamo almeno digitale, anche se a forte rischio di disumanizzazione... ma insomma vocalist, musiciste e ricercatrici del valore e della sensibilità di Cristina Meschia non si danno per vinte e continuano a cercare di recuperare tradizioni musicali apparentemente perdute. 

Dopo il dialettale Intra, suo primo lavoro incentrato sulla riscoperta di canti e poesie popolari del suo territorio di nascita, quello di Verbania, sulla sponda occidentale del Lago Maggiore, nella parte piemontese del grande lago pedemontano, in questo Inverna la Meschia ci riporta all’epoca gloriosa degli esordi del folk revival nostrano, in pieno appiattente vorticoso boom economico, che la civiltà contadina la stava letteralmente spazzando via, rievocando il meritevole operato e le ricerche del nutrito gruppo di musicisti e intellettuali (Roberto Leydi, Gianni Bosio, Filippo Crivelli), che nella prima metà degli anni sessantadel secolo scorso diedero vita alle valorose attività (teatrali, discografiche) del milanese Nuovo Canzoniere Italiano, ideando (tra le molte cose) lo spettacolo simbolo di quell’ampia stagione di recupero, nuova valorizzazione e reinvenzione del patrimonio musicale popolare e di protesta, a fondamento poi di tutte le rivitalizzazioni successive, ovverosia il famoso Bella Ciao (che qualche anno fa ha compiuto i suoi primi, opportunamente festeggiati, cinquant’anni). 

Nello specifico Cristina Meschia prende ispirazione e spunto dallo storico studio antologico sulla canzone lombarda a opera di Nanni Svampa, con il quale Cristina ha avuto modo di collaborare; uno studio meticoloso, condotto con l’aiuto di Michele Straniero, che all’epoca della sua realizzazione, tra la fine degli anni sessanta e il decennio successivo, si era articolato in dodici album, e che la Ricordi/BMG ha ripubblicato nel nuovo millennio con il titolo originale (Milanese - Antologia della canzone lombarda) in un corposo cofanetto contenente tre doppi CD. Un’opera che tutt’oggi rappresenta una delle maggiori collezioni e selezionate classificate raccolte d’archivio sulla storia musicale e dialettale della Lombardia e della città di Milano. 

A cospetto di tanta preziosa eredità, da rilanciare con cura e responsabilità, Cristina Meschia non tradisce le attese, dimostrando nuovamente d’essere una vocalist autorevole e di talento, sensuale e coinvolgente, sospesa, grazie ai tanti diversificati studi e ai molti incontri, tra impostazione accademica, flessuosità e duttilità jazzistica e autentica sensibilità popolare (non priva di più orecchiabili, moderne, non invadenti, sfumature pop). 

Una voce soprano incantevole, la sua, levigata, cristallina, certo non una Giovanna Daffini, storica “meno educata” interprete del variegato repertorio delle mondine e non solo, e però rotonda, intrisa di carattere, carisma, densa di forza interpretativa, soprattutto nell’uso del dialetto, oppure del francese, nell’omaggiare, come faceva Svampa, Georges Brassens, e però (nel caso di Cristina) quasi sembrando l’inimitabile Edith Piaf. 

A costituire questo suo secondo album – nove canti popolari di protesta, guerra, lavoro e amore, registrati presso il Riverside Studio di Torino – sono composizioni significative come "Senti le rane che cantano", uno dei più conosciuti ed emblematici canti di monda, sul sospirato ritorno a casa delle mondine dopo i quaranta giorni di risaia (la naja delle donne); la commovente "Bella ciao delle mondine"; "Povre filandere", canto nato nelle filande del bergamasco (il repertorio di filanda ha rappresentato l’altra storica faccia del lavoro “operaio” delle donne; un repertorio altrettanto aperto e sfaccettato nei suoi contenuti e però più triste e lamentoso, a causa dei luoghi chiusi e asfittici, in cui le donne erano costrette a lavorare; un canto, quello di filanda, meno rivolto a ritmare il lavoro e più invece ad alleviarlo nella sua ripetitiva e snervante monotonia); "De tant piscinìn che l’era", brano dedicato ai piccoli strimpellatori di strada (sotto la madonnina venivano chiamati i “barbapedana”), composto da Enrico Molaschi, storico suonatore ambulante meneghino, figura di snodo fra la canzone popolare e quella d'autore milanese; "E L’era tardi" di Enzo Jannacci, qui ad aprire le danze, canzone per la prima volta incisa dal celebre cabarettista medico nell’album di debutto del 1964, dedicato proprio alla sua Milano; "Bell’usellìn del bosch", una delle canzoni popolari più diffuse in tutta l’Italia settentrionale, qui in una versione romantica milanese; "El pover Luisin", dolente canzone contro la guerra, nata in Lombardia dopo la Seconda Guerra di Indipendenza del 1859; ed altre ancora. 

Cristina Meschia

Ad accompagnare la Meschia è un sontuoso gruppo di musicisti, che suonano con piacere, gusto, classe, ispirazione, di certo invogliati dagli ariosi, piacevoli e forbiti arrangiamenti del trombettista Giampaolo Casati e dalla supervisione artistica del pianista Gianluca Tagliazucchi, due talenti del jazz italiano (sempre troppo nascosti), cresciuti alla nobile scuola genovese. Completano la formazione Riccardo Fioravanti (contrabbasso e basso elettrico), Marco Moro (flauto), Manuel Zigante (violoncello - si ascolti il suo solo in "Bella ciao delle mondine"), Umberto Fantini (violino), Julyo Fortunato (fisarmonica), Gilson Silveira (percussioni) e in veste di ospite speciale Alessio Menconi alle chitarre. 

A colpire in particolar modo sono proprio gli arrangiamenti argentini (nel senso di lucenti, scintillanti, forse anche un po’ sudamericani, ci sentiamo dentro anche come gli echi del tango argentino o italiano oppure, alla lontana, i sottili aerei fiati della bossanova, ma staremo esagerando con i riflessi) di Giampaolo Casati, a tratti in magnifico sorprendente equilibrio (questo sì), lasciando per un attimo da parte la certo presente swingante, felpata ed ondivaga componente jazzistica, tra una sorta di leggerezza mozartiana, un evocativo carattere pastorale, da bucolico poema sinfonico ottocentesco, e ricche luminose armonie da sviolinante liscio padano (senza che nessuno si offenda). 

La parola inverna, centra poco con la prossima stagione invernale (se non per assonante suggestione), ma come raccontava Piero Chiara nel suo celebre romanzo del 1976, calato però nell’immediato secondo dopo guerra e interamente ambientato sul Lago Maggiore, La stanza del vescovo, che rifletteva sulla tragica ed avariata stagione fascista, «l’inverna è il vento che nella buona stagione si alza ogni giorno dalla Pianura Lombarda e risale il lago per tutta la sua lunghezza». 

Forse un modo, per Cristina Meschia, di mantenere vivo un contatto privilegiato con la propria terra d’origine, pur essendosi qui misurata con un repertorio, che idealmente abbraccia lande molto più vaste, unendo pianura, lago e prealpi, città e campagna, ottocento agricolo e novecento urbano, e tenendo conto, almeno sul piano della realizzazione, dell’anima di tutte e tre le città e le aree componenti lo storico triangolo industriale.

Buona la prima, ma ottima la seconda.

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