L'indofuturismo di Sarathy Korwar

Kalak è il nuovo album “antiutopista” del compositore e percussionista indiano a Londra

Kalak Sarathy Korwar
Disco
oltre
Sarathy Korwar
Kalak
Leaf Label
2022

Elencando in voce all’epilogo i titoli degli 11 brani di Kalak, Sarathy Korwar descrive i presupposti e le intenzioni dell’impresa: “Una ricetta per curare l’amnesia storica, per ricordare, l’utopia è un progetto coloniale, una volta le cose non erano poi così semplici, il passato non è solo dietro di noi ma anche davanti a noi, Kal significa ieri e domani, ricordare Begum Rokheya, quegli orologi non indicano il tempo ma lo generano, ricorda che i cerchi sono meglio delle linee, ricorda di prestare attenzione ai segnali, Kalak: un mezzo per fare sottosopra”.

Allo stesso modo, in principio, Korwar si pronuncia su privilegi, appropriazione culturale e rimozione dell’esperienza coloniale usando metafore culinarie: “I ricordi hanno bisogno di cuocere, la nostalgia viene cotta a vapore... Il pasto adesso è rovinato, il pasto adesso è pronto”.

Da queste premesse s’intuisce l’ampiezza dell’orizzonte esplorato dal percussionista e compositore nato negli Stati Uniti, cresciuto in India e da una quindicina di anni residente a Londra, nella cui scena jazz si è incuneato mantenendo saldi legami con i linguaggi ancestrali.

Esemplari, da questo punto di vista, le registrazioni dal vivo contenute nel triplo My East Is Your West (2018), cointestato all’UPAJ Collective, dove alla free music spirituale di Alice Coltrane, Pharoah Sanders e Don Cherry sono accostati i raga di Ravi Shankar, e l’album More Arriving (2019), nel quale i codici del jazz contemporaneo convivono con le rime dei rapper di Mumbai. Kalak si spinge ancora più in là, esponendo una visione “indo-futurista” del cosmo e rivoluzionando addirittura la struttura della grafia compositiva.

Sul piano politico, da un lato contesta la nozione occidentale di Utopia, mettendo in relazione il testo di Thomas More con gli albori del colonialismo britannico, e dall’altro ne propone una versione alternativa, rievocando la figura dell’attivista e teorica femminista bengalese Begum Rokheya, autrice a inizio Novecento di Sultana’s Dream: racconto romanzesco di una società matriarcale chiamata Ladyland.

Ascoltando gli episodi in questione si colgono entità e complessità dell’inventiva che li anima: “Utopia Is a Colonial Project” avanza incalzante sospinto da tambureggiare di tabla, bordone elettronico e riff di fiati da fanfara balcanica, mentre “Remember Begum Rokheya” pratica l’ìpnosi attraverso loop di sax e flauto, canto devozionale e vertiginose poliritmie.

Per fare ciò, nella scrittura Korwar ha rimpiazzato la notazione lineare con una configurazione circolare, espressa paradigmaticamente sia nel titolo palindromo (derivato da “kal”, vocabolo che in Hindi e Urdu equivale tanto a “ieri” quanto a “domani”) sia nel simbolo effigiato in copertina.

La sensazione di “circolarità” si percepisce in particolare nello sviluppo avvolgente di “The Past Is Not Only Behind Us, But Ahead of Us”, sospeso fra il Quarto Mondo di Jon Hassell e il minimalismo in Do di Terry Riley, oppure nel crescendo ammaliante di “Remember To Look Out for the Signs”.

Date le prerogative del protagonista, è ovvio che fondamento del disco sia il ritmo: impressionante quello scandito dai tamburi Taiko degli ospiti giapponesi Kodo nell’epica rituale di “That Clocks Don’t Tell But Make Time”, quando invece durante “Back in the Day, Things Were Not Always Simpler” sembra di stare dentro un rave ambientato nel Taj Mahal.

Registrata negli studi Real World con il produttore newyorkese Photay, avvalendosi di un nucleo di strumentisti rodato nei lavori precedenti, tra cui Danalogue (The Comet Is Coming) ai sintetizzatori e Tamar Osborne alle ance, Kalal è un’opera di formidabile intensità sensoriale e rara intelligenza creativa.

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