Leyla McCalla, febbre a Haiti
Nel nuovo lavoro Breaking the Thermometer Leyla McCalla riscopre le proprie radici antillane
«I ricordi di Haiti mi arrivano a ondate», racconta Leyla McCalla introducendo Breaking the Thermometer, e il primo suono che si percepisce qui è appunto uno sciabordio da spiaggia, cui si sovrappongono poi canti di uccelli e galli, finché un cadenzato pizzicare di violoncello sostenuto dalle percussioni compone il canovaccio sul quale si ascolta la voce della madre dire: «Quando sei andata quell’estate a Haiti, tornasti dicendo di essere haitiana».
Entrambi i genitori di McCalla – intellettuali e attivisti – provengono di là, transfughi in una diaspora che durante il Novecento coinvolse centinaia di migliaia di isolani, indirizzandoli in maggioranza verso gli Stati Uniti (caso esemplare di quella discendenza su scala musicale erano i Fugees). Da parte sua, la trentaseienne nativa di New York si è fatta le ossa da violoncellista suonando in strada le suite di Bach a New Orleans, prima di entrare nei Caroline Chocolate Drops, reduci da un Grammy Award, e proseguire quindi – a gruppo estinto – la collaborazione con Rhiannon Giddens nel recente progetto Our Native Daughters, avendo pubblicato frattanto da solista l’album Vari-Colored Songs, datato 2014 e consacrato alla figura di Langston Hughes: comunista afroamericano, pioniere della jazz poetry ed esponente – un secolo fa – dell’Harlem Renaissance.
Le tracce dell’ascendenza haitiana divennero evidenti nei successivi A Day for the Hunter, A Day for the Prey (2016) e Capitalist Blues (2019), anticipando il tema conduttore del lavoro in questione: ramificazione discografica dell’allestimento teatrale Breaking the Thermometer to Hide the Fever, realizzato in coppia con la regista Kiyoko McCrae e presentato nel marzo 2020 alla Duke University, committente dell’iniziativa.
Da metà dello scorso decennio l’ateneo della North Carolina custodisce l’archivio di Radio Haiti-Inter, emittente in lingua creola dalla storia tormentata: chiusa nel 1980 dal regime del dittatore Duvalier, riaperta nel 1986, nuovamente zittita dopo il colpo di stato del 1991 e riattivata nel 1994 al ritorno del deposto Aristide; una sequenza di eventi culminata il 3 aprile 2000 nell’assassinio del direttore Jean Dominique: soggetto del documentario di Jonathan Demme The Agronomist (2003).
Attingendo a quel giacimento McCalla ha dato forma all’opera, punteggiata da registrazioni d’epoca: intermezzi in un flusso dove si alternano composizioni originali e rielaborazioni di brani tradizionali. A quest’ultima specie appartengono ad esempio l’iniziale “Nan Fon Bwa” (scritta da Frantz Casseus, chitarrista celebrato nel 1993 da Marc Ribot) e lo standard “Dodinin”, interpretato dalla protagonista con verve e dinamismo.
Nella sezione cover spicca la divagazione “tropicalista” affrontata riprendendo “You Don’t Know Me”: canzone composta da Caetano Veloso nel 1972 a Londra, dov’era esule, e modificata nella circostanza in un dettaglio essenziale – il luogo di nascita diventa Haiti anziché Bahia – per aderire al tòpos narrativo.
Fra il materiale autografo, invece, reclamano attenzione la sensuale indolenza di “Vini Wé” e il malinconico canto su arpeggio di banjo di “Fort Dimanche”, dal nome di un famigerato carcere ai tempi di Duvalier.
Approssimandosi all’epilogo, in “Memory” l’autrice si domanda: “Quanto pesa un ricordo?”. La risposta tarda un paio di minuti, ma è illuminante: “Leggero come una piuma, gravoso come macigni”. Benché alluda al passato, Breaking the Thermometer ci parla comunque del presente: «Haiti è stata la prima nazione nera indipendente nell’emisfero occidentale. La sua stessa esistenza era e rimane una minaccia per il potere coloniale», afferma lei, rendendo omaggio al valore del paese degli avi a dispetto delle tragedie tettoniche, climatiche e politiche che l’hanno afflitto dal 2010 a oggi. “Lotteremo per vedere la luce attraverso l’oscurità”, recita speranzoso un passo di “Artibonite”.