L’emigrazione secondo Leon Vynehall

Con Nothing Is Still il produttore britannico rievoca in musica, prosa e video la storia dei suoi nonni

Leon Vynehall - Nothing is Still
Disco
oltre
Leon Vynehall
Nothing Is Still
Ninja Tune
2018

Personaggio in genere sfuggente (rare interviste, pochissime foto), il produttore e DJ britannico Leon Vynehall si espone in modo sorprendentemente intimo nel primo album a suo nome. E lo fa distanziandosi da ciò con cui, a metà decennio, attraverso gli EP Music for the Uninvited e Rojus, aveva ottenuto attenzione, ossia un’interpretazione “profonda” e sensibile dei canoni house.

In Nothing Is Still quelle cadenze da dancefloor sono praticamente assenti, fatta eccezione per il repentino sbocco ritmico che devia il corso di “English Oak”: scopo dei 40 minuti di svolgimento non è invogliare al ballo, bensì evocare lo scorrere di una storia. Ancoraggio narrativo dell’opera, alla quale sono complementari un romanzo breve firmato da Vynehall con Max Sztyber e una serie di video tematici, è la vicenda dei nonni emigrati in America più di mezzo secolo fa a bordo di una nave: soggetto richiamato pure dalla copertina, dov’è riprodotto il fotomontaggio creato nel 1967 dall’artista belga Pol Bury rielaborando uno scatto del fotografo Sam Falk raffigurante il ponte George Washington a New York. Il disco si snoda così in nove capitoli e due note a piè di pagina, associati alla decina di episodi che lo compone, e tratteggia un complesso affresco sonoro alla cui composizione hanno concorso un’orchestrina d’archi di dieci elementi, qualche fiato e un pianoforte, oltre all’armamentario di apparecchi elettronici analogici e digitali manovrato dal protagonista.

L’effetto d’insieme è molto suggestivo, disegnando un paesaggio sospeso tra rarefatte atmosfere ambient, sequenze di natura minimalista e scorci di hip hop astratto stile Dj Shadow. Esemplare, da quest’ultimo punto di vista, è “Envelopes”: sintetizzatori vaporosi, basso dub, battuta lenta e fraseggi di violini.

Un vago sentore di jazz trapela invece, tre capitoli prima, da “Movements”, al tempo stesso elegante ed emotivamente intenso grazie al suono deformato del sassofono.

Il medesimo strumento riaffiora poi in “Drinking It In Again”, brano animato da un ingegnoso loop ansimante, mentre il successivo “Trouble – Parts I, II, & III” nasce da una progressione circolare modello Steve Reich per incappare quindi in un cupo sbarramento rumorista dall’aspetto quasi “industriale”. Frutto di un lavoro durato quattro anni, l’album rivela quali siano le ambizioni dell’autore: in termini di comunicazione, la musica che produce compensa infatti abbondantemente la sua elusività individuale.

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