Lee Gamble, l'arte astratta del ritmo
Mnestic Pressure, il nuovo e ambizioso lavoro del produttore elettronico britannico Lee Gamble
Quando si dice il destino nel nome: in inglese gamble sta per “azzardo”. Ed effettivamente la musica della quale è artefice il produttore Lee Gamble, originario di Birmingham incorpora la nozione di rischio. Cresciuto nel sottobosco semiclandestino di metà anni Novanta, fra radio pirata e rave, in sintonia con ciò che ne era colonna sonora, ossia il drum’n’bass all’epoca in cui veniva chiamato ancora jungle, ha proseguito da allora il proprio cammino assecondando l’evoluzione del fenomeno nota come hardcore continuum, sfociata infine in dubstep e grime.
Dance music divenuta – volendo usare un’altra espressione in codice – “intelligente”, rinunciando cioè all’immediatezza ritmica e assumendo profilo concettuale in termini di armonie e melodie, per semplificare la formula. Da questo punto di vista, Lee Gamble rappresenta un caso esemplare. Defilato dalle passerelle hipster e piuttosto parsimonioso in fatto di uscite discografiche, ha nondimeno reputazione elevata nei circoli dell’avant-garde elettronica, grazie soprattutto alla trilogia realizzata per l’etichetta berlinese PAN fra il 2012 e il 2014: Dutch Tvashar Plume, Diversions 1994-1996 e Koch.
Il suo primo lavoro uscito con il marchio coniato dallo scozzese Kode9 prende le mosse di là ma si spinge oltre, animato – a detta dell’autore – da un’intenzione politica innescata dalla “costante pubblicità subliminale della società”, che attraverso i canali all’apparenza neutrali dei social network mette sotto pressione la memoria (ecco spiegato il titolo) e crea così l’habitat adatto per l’epifania di “cigni neri” tipo Brexit e Donald Trump. Mnestic Pressure è dunque un’opera al tempo stesso ambiziosa, radicale e acutissima, prossima più all’arte astratta che alla sfera del clubbing. Le cadenze rimandano l’eco lontana delle fonti di provenienza, essendone ormai distanti: schegge di hip hop (in “23 Bay Flips”), ectoplasmi dub (“Swerva”), souvenir dalla “giungla” d’appartenenza (“Ghost”), techno liofilizzata (“Quadripoints”).
L’effetto è a tratti impressionante, nel groove stilizzato di “Istian” oppure fra le sofisticate volute ambient di “A Tergo Real”, e in certi momenti persino ostile, dal martellante incedere industriale di “UE8” alla cervellotica architettura sonora di “Ignition Lockoff”, allineando la rotta seguita dall’album ai tracciati sperimentali di scuola Warp (Autechre e Aphex Twin). Il risultato è tanto ammirevole nella concezione quanto impegnativo all’ascolto.