Le promesse di Floating Points e Pharoah Sanders

Promises è un’avventura al crocevia fra jazz astrale, avant-garde elettronica e musica da camera

Floating Points, Pharoah Sanders & The London Symphony Orchestra
Disco
oltre
Floating Points, Pharoah Sanders & The London Symphony Orchestra
Promises
Luaka Bop
2021

All’apparenza, il trentaquattrenne Sam Shepherd alias Floating Points e l’ottantenne Farrell "Pharoah" Sanders sembrano separati da grandi distanze: sia in termini anagrafici sia – soprattutto – per aree di appartenenza musicale. In realtà, sono molto più contigui di quanto non si pensi.

Tempo fa il produttore britannico aprì un DJ set al Berghain di Berlino con “Harvest Time”, traccia da oltre 20 minuti impressa sul lato A di Pharoah, long playing datato 1977 di Sanders, che nel 2015 è rimasto folgorato da Elaenia, lavoro d’esordio di Floating Points, a tal punto da provare il desiderio di ritornare a suonare in studio. Venuti a contatto grazie all’etichetta discografica di David Byrne, da allora i due hanno dato forma al progetto di un album condiviso, registrando nel 2019 a Los Angeles – su partitura di Shepherd – il canovaccio dell’opera, integrato poi la scorsa estate dalle parti di archi affidate a strumentisti della London Symphony Orchestra. Il risultato è una suite di poco superiore ai tre quarti d’ora, illustrata in copertina da “Congress”: dipinto firmato nel 2003 dall’artista di origine etiope Julie Mehretu.

Per realizzarla, il Faraone (soprannome che gli fu assegnato da Sun Ra agli albori degli anni Sessanta) e il Neuroscienziato (Shepherd ha svolto un dottorato di ricerca sulla codifica neuronale del dolore) si sono dati convegno in un luogo intermedio fra il jazz astrale di cui il primo divenne ambasciatore sulle orme di Coltrane – John, ma anche Alice – e l’avventurosa esplorazione della sfera elettronica (e non) perseguita dal secondo, già transitata in zona cameristica al principio degli anni Dieci con l’estemporanea formazione del Floating  Points Ensemble.

La musica è dunque frutto dell’incrocio fra linguaggi e sensibilità differenti: un azzardo, insomma, destinato verosimilmente a scontentare i puristi delle varie fazioni in gioco. Troverà viceversa soddisfazione chi vi si accosta libero da pregiudizi.

Benché articolato in nove movimenti, Promises scorre senza soluzione di continuità: sboccia da un bulbo costituito da un motivo di sette note – ricorrente lungo l’intera composizione – creato da Shepherd maneggiando clavicembalo, celesta e sintetizzatore, dal quale inizialmente fiorisce l’habitat ambient in cui s’insinua mellifluo il tenore di Sanders, che nel quarto atto depone lo strumento per impiegare la voce, gorgogliando e bisbigliando.

Gli archi entrano in scena fra il secondo e il terzo, prendendone possesso durante il sesto, il solenne crescendo sinfonico del quale riecheggia tanto i “canti lamentosi” di Henryk Górecki quanto il Morricone di Mission. Il flusso sonoro sfocia quindi – con l’intensità lancinante del sassofono e un organo trattato alla maniera di Riley – nella deviazione “cosmica” che conduce verso l’epilogo, dove – guidate da un violino – le vibrazioni inquiete delle corde precipitano infine nel silenzio. La prescrizione parla di “un’esperienza d’ascolto privata”. Seguirla significa: indossare le cuffie, alzare il volume e lasciarsi trasportare. Da lassù, tutto il resto sembrerà piccino.

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