Le donne di Sicilia di Matilde Politi
Viva Santa Liberata di Matilde Politi è un viaggio aspro e affascinante nell'immaginario femminile del folk siciliano
Ci sono lavori discografici che poco o nulla concedono alla patina esteriore, alla carineria dell’apparire, alla veste che copre una sostanziale, asfittica mancanza di idee. Succede pressoché in ogni ambito musicale. Ma in quella galassia frastagliata, mobile e imprendibile che tutta assieme riassumiamo nel termine “folk progressivo” il dato segnalato in apertura è quanto mai evidente. Il problema, per dirla con parole del secolo scorso, è il “modo di produzione”: anche le note che appartengono essenzialmente alle culture orali passano per il mercato, e per la coscienza indiretta della riproduzione, dato che quasi nessuno attinge più direttamente a fonti sempre più diradate. E mercato, stringi stringi, significa vendere le cose. Vende meglio chi si presenta meglio. Al di là di ogni contenuto. Dato triste ed eticamente poco raccomandabile, ma è così.
La premessa per dire che Viva Santa Liberata di Matilde Politi è un lavoro che nulla fa per apparire carino” o “accattivante”. Non ci sono trucchi di studio a infiorettare questo quel brano, perfino la stessa componente strumentale è ridotta al minimo, e suona per davvero come “accompagnamento” di una voce tesa e amara, splendidamente aspra come è quella della Politi. Qualche piccola corda qui e là (Alessandro Puglia, Sebastian Torres), il marranzano ronzante di Martino Passanisi, qualche tocco di tamburelli a cornice e organetto dalla stessa vocalist.
Perfino il titolo potrebbe apparire un ostacolo: invece da lì si tratta di partire, perché il discorso lo richiede. C’è criptato un tranello semantico, di significato vero, oltre l’apparenza. Santa Liberata esiste davvero, nell’immaginario popolare dei siciliani, (la protettrice delle puerpere, la celebre “santa barbuta”) ma qui l’agiografia e l’aiuto sovrannaturale poco c’entrano: c’entra invece, e molto, il discorso su una femminilità che per essere “liberata”, in contesti fortemente marcati dai ceppi stringenti del patriarcato, deve trovare la propria via e le proprie “parole per dirlo”, per citare Lalla Romano. E sapendo che una donna liberata lo può essere solo in un contesto complessivamente liberato.
Da qui la narrazione di Politi, musicista, donna di teatro, antropologa. La narrativa “Storia di Ginuveffa” fa da filo conduttore, una storia cornice che va incorporare frammenti poco noti di storie dalla Sicilia profonda e sconosciuta dei boschi, delle grotte, dell’interno. Ben riuscito l’incastro tra brani di tradizione e composizioni originali: l’ascolto in successione ha i tratti di un vero e proprio viaggio. E i tratti melismatici della voce costruiscono la danza impervia: come nella splendida "Ciatu Me".