Le Canzuni di Massimo Ferrante

Il calabrese Massimo Ferrante con un disco scarno ed essenziale

Massimo Ferrante Canzuni
Disco
world
Massimo Ferrante
Canzuni
Felmay
2022

"Il troppo è il padre del nulla”, scriveva molti anni fa Giacomo Leopardi, anticipando quanto avrebbe detto, più o meno un secolo dopo, il grande Thelonious Monk a proposito della musica – identico concetto. Le verità assolute in arte non esistono, sia chiaro: a volte possono servire più note, a volte meno, quelle “note necessarie” che Enrico Rava racconta in un bel libro di aver sentito nominare da Jobim, a proposito di grandi musicisti.

Il tutto a preambolo di un disco – Canzuni di Massimo Ferrante – che più scarno di così non potrebbe essere, eppure risulta di una pienezza rotonda, confortante. Davvero, al di fuori di ogni retorica, a volte una voce e una chitarra bastano e avanzano, possono diventare anche forze soverchianti. L'importante è che prema dall'interno un mondo di cose da dire, che si sia in balia dell'entusiasmo del raccontare: ed entusiasmo, racconta l’etimologia della parola, significa “avere un dio dentro di sé”.

Il calabrese Massimo Ferrante si porta dentro un dio molto laico e molto terragno: il racconto in musica, che è poi la necessità più urgente e meno riconosciuta di homo sapiens, dagli inizi di quella che chiamiamo storia, e forse anche prima. E, sempre a proposito di asciuttezza totale, di poco per ottenere molto, si potrebbe far caso al titolo, uno scarnissimo “canzuni” che in una parola sola circoscrive un universo.

La grafia con la “u” al posto della “o” ci dice che affronteremo un viaggio su quella linea che potremmo definire, grazie a un gran disco recente, A Sud di Bella ciao.

Dunque canzoni narrative, ninnananne, incandescenti e sensuali canzoni “d’amuri”, lamenti, canzoni iterative, ostruite per accumulo di nomi e situazioni, per aiutare e allenare la memoria. Ed anche di “tradizione”, quindi sedimentate in un fondo carsico a cui si può arrivare per diverse strade, o d'autore, quando l'autore si muove su quelle medesime coordinate, ma lasciando un segno personale, una firma, diremmo oggi. E storia vera, tanta storia sublimata e raggrumata in canto. Per non dimenticare.

Serve, per farlo, una voce antica e potente, e Ferrante ce l'ha, e un tocco raffinato e semplice al contempo sulla sei corde, da Ferrante affinato nei decenni. Come ha raccontato nelle fasi di crowdfunding, i riferimenti qui vanno ai grandi maestri della canzone popolare del secolo scorso: Matteo Salvatore, Otello Profazio, Rosa Balistreri, Roberto Murolo.

Ma troverete anche la “strina campagnola” tratta da uno spettacolo teatrale che girò per la Calabria alla fine degli anni Sessanta, una canzone d'immigrazione in “griko” salentino, una gemma pasoliniana dal Canzoniere italiano, e, staffilata dolorosa di  contemporaneità, la messa in musica della poesia di Aldo Masullo sul bambino maliano annegato nel Mediterraneo, e ritrovato con la sua pagella piena di bei voti cucita agli abiti.

Ancora una volta, si dimostra come l’apparente a semplicità sia costruita, spesso, sullo spessore ineludibile delle cose.

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