Le canzoni “patologicamente confessionali” di Samia
Honey è il secondo album di Samia, giovane cantautrice statunitense dal talento ancora acerbo ma nitidissimo
Al secondo album in carriera, dopo il promettente esordio The Baby, uscito nell’estate del 2020, la ventiseienne Samia conferma le proprie qualità in Honey, infoltendo la schiera di giovani cantautrici statunitensi destinate al successo.
Figlia di attori e a sua volta impegnata già a recitare in teatro e al cinema, ha assorbito precocemente l’influsso dell’industria dell’intrattenimento, sviluppando per reazione una certa allergia: «Ero molto disincantata, perché vedevo in che modo distruggeva la felicità e la vita delle persone», ha confessato di recente a “The Guardian”.
È stata la musica a folgorarla nell’adolescenza, invece, attraverso le gesta degli eroi “alternativi”: Kurt Cobain, Elliott Smith, Daniel Johnston e Father John Misty, al quale ha dedicato addirittura una delle prime composizioni (“The Night Josh Tillman Listened to My Song”).
Cominciò a produrne anni fa emulando nei testi l’esempio delle poetesse Maya Angelou e Anne Sexton, benché adesso la si ascolti cantare: “Sto scrivendo una poesia, qualcuno mi fermi”. Accade nel penultimo brano in sequenza, indirizzato espressamente ad Amelia Meath, metà femminile dei Sylvan Esso, con cui ha familiarizzato in tournée nel 2021, tanto da scegliere lo studio di registrazione allestito dalla coppia in un bosco del North Carolina per realizzare questo disco, oltre a metabolizzarne l’impronta elettronica.
Se ne percepisce l’eco in “Mad at Me”: seducente esercizio pop dal vago accento R&B che culmina nel duetto con Papa Mbye, artista visivo e rapper sui generis.
All’opposto, esibisce sembianze folk d’antico stampo “To Me It Was”: ballata in coda alla quale rievoca la figura della nonna libanese da cui ha ereditato il nome. Nata a Los Angeles, cresciuta a New York e ora stabilizzata a Nashville («Stare qui mi ha insegnato a dire più cose usando meno parole», ha dichiarato), Samia crea – ammette lei – «canzoni patologicamente confessionali».
Prendiamo l’iniziale “Kill Her Freak Out”: fragile elegia su malinconico bordone d’organo che contiene tuttavia versi velenosamente rabbiosi (“Non sono stata mai così male. Posso dirti una cosa? Non mi sono sentita mai così indegna di amare. Spero che tu sposi la ragazza della tua città e io l’ammazzerò, cazzo. E andrò fuori di testa, cazzo”).
E più in là, ecco la vignetta amaramente autobiografica tratteggiata in “Sea Lions”: “Gridando ‘Il porno uccide l’amore’, fuori dalla tua finestra con gli Avventisti. So che è sbagliato, non riesco a ricordare come sono diventata così. Dicevi che quando passo in radio ti viene voglia di morire. Beh, se sto zitta posso entrare?”
Con tono confidenziale e voce accattivante racconta di amori agli sgoccioli o in embrione, insicurezze e scorciatoie per eluderle, tipo l’alcol, birra o tequila che sia: “Dal bar mi hai portata direttamente al pronto soccorso, mentre sanguinavo sulla tua auto. Il dottore era malvagio, ma tu gli hai dato del cretino e hai aspettato lì tutta la notte”, intona quasi a cappella con impercettibile correzione di Auto-Tune nella struggente “Breathing”.
Poi prende fiato e affronta il classico canone indie rock esposto nell’episodio che intitola l’intera raccolta alla maniera di Adrianne Lenker dei Big Thief: “Voglio andare in spiaggia e morire sulla spiaggia, voglio essere una sirena, senza paura degli squali, senza paura di essere nuda, senza paura di niente”.
Alternando momenti di tenera ingenuità (“Baciarti sarebbe come baciare gli Stati Uniti”, proclama in “Charm You”) a scorci da melodramma postmoderno (“Tua madre continua a minacciare di suicidarsi durante le vacanze”, è l’incipit del madrigale esistenzialista “Pink Balloon”), Samia descrive sé stessa e il mondo circostante con talento forse ancora acerbo eppure nitidissimo.