Laura Veirs, una luce in fondo al tunnel
Reduce da un divorzio, la cantautrice statunitense reagisce con un disco squisito: Found Light
Ci eravamo dimenticati di quanto brava fosse Laura Veirs, artista poco appariscente che avevamo lasciato al penultimo disco prima di questo, The Lookout, edito nel 2018, ignorando colpevolmente il successivo My Echo, almeno altrettanto meritevole.
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Ce ne rammenta le qualità adesso Found Light: dodicesimo capitolo di una serie avviata nel 1999 con un album autoprodotto, mentre di tutt’e dieci i successivi si era occupato invece Tucker Martine, suo partner musicale e sentimentale. Una relazione interrotta dal divorzio nel 2019: evento di cui dà conto il nuovo lavoro. Fin dal titolo, “Ring Song” – ballata brumosa e malinconica, increspata impercettibilmente da un pianoforte dispettoso – parla di quello: “Forse mi sentirai alla radio, forse ti vedrò in sogno”. Eppure: “Il mio cuore freddo e amareggiato non può fare a meno di cantare”, recita un verso di “Can’t Help But Sing”, prezioso esercizio di folk polifonico.
Non c’è solo rammarico nel discorso da lei imbastito attraverso le canzoni, dunque: si percepisce anzi un senso di liberazione, espresso in maniera eloquente nel video di “Winter Windows”, ultimo brano in sequenza, dove riemerge l’impulso garage rock che l’aveva animata da ragazzina a Portland, allineato però all’attualità biografica (“Sto cercando di capire le nostre due vite separate”).
Se l’epilogo è ambientato in inverno, l’inizio allude viceversa alla stagione precedente su una trama ricamata alla chitarra in punta di plettro: “Faccio una lista di modi per essere libera, di modi per lasciarsi andare, di modi per essere amata”, confessa in “Autumn Song”. E strada facendo, in “Time Will Show You”, sbuca fuori pure – accentata da un violino country – una “estate audace”: “Mani forti ti toccano di nuovo, ti scopano e ti scopano, e poi uomini migliori che non incontreresti mai ti mangiano al cucchiaio negli Airbnb”.
L’impeto sessuale affiora con prepotenza anche nell’esplicito “Naked Hymn”, turbato dai volteggi di un sax soprano: “Il coro di Saffo dentro la mia bocca”, la frase chiave. All’estremo opposto, in termini emotivi, è situata la tenera filastrocca intonata in “T & O”: intestata con le iniziali dei nomi dei figli. Si tratta delle polarità che racchiudono l’identità dell’autrice, determinata ad affermare – ha spiegato introducendo Found Light – “la forza delle madri e il potere delle donne”, qualcosa che “riguarda prendere le redini della vita e condividere la nostra luce interiore e il nostro vigore”.
Uno stato d’animo che all’ascolto sembra riflettersi nell’andatura sensuale e moderatamente elettrica di “Seaside Haiku”, in contrasto con un atteggiamento a parole guardingo: “L’ho imparato dal dolore, dare, ma non dare troppo di te stessa”.
Altro vocabolo giapponese è “Komorebi”, equivalente a “luce che filtra tra le foglie degli alberi”, utilizzato qui per designare l’unica traccia strumentale della raccolta: esemplare nell’evidenziarne le orchestrazioni sobrie e minuziose cui ha contribuito Shahzad Ismaily (percussionista nei Ceramic Dog di Marc Ribot), del quale si apprezza il gusto raffinato in “Signal”, che procede con ritmo flemmatico tra ipnotici effetti di tastiere. L’episodio maggiormente sorprendente è tuttavia “Eucalyptus”, incapsulato in un groove incalzante che sfocia in arpeggi sintetici degni di un inno da rave.
Prossima alla soglia dei cinquant’anni e appena entrata in una fase nuova dell’esistenza, Laura Veirs ostenta freschezza e maturità: ingredienti principali di un disco squisito.