L'afrofuturismo consapevole di Damon Albarn
Il progetto Africa Express di Damon Albarn in missione a Johannesburg per EGOLI
Qualcuno, maliziosamente, potrebbe dire che Damon Albarn fa troppe cose: Blur, Gorillaz, The Good the Bad and the Queen, Rocketjuice & The Moon e poi pure da solista. Generalmente bene, però. Fra le tante c’è anche Africa Express, associazione non-profit di cui si fece promotore nel 2006 in polemica con il Live8 organizzato l’anno prima da Bob Geldof, nel quale – a dispetto del movente: denunciare la povertà nel mondo, alla vigilia del G8 – compariva un solo esponente, il senegalese Youssou N’Dour, del continente dove il problema è più accentuato.
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L’intenzione era creare una piattaforma per collaborazioni multiculturali, su disco e dal vivo, in grado di superare gli schemi della cosiddetta “world music”.
Impressionante il cast dei personaggi via via coinvolti: i visi pallidi Paul McCartney, Brian Eno, Björk, John Paul Jones, Paul Weller, Fatboy Slim, Mick Jones, Peter Hook, Robert “3D” Del Naja, Elvis Costello e Billy Bragg, accanto agli africani Amadou & Mariam, Tony Allen, Toumani Diabaté, Baaba Mal, Femi Kuti, Tinariwen, Rokia Traoré, Salif Keita, Oumou Sangarè e Fatoumata Diawara.
Memorabili alcune performance pubbliche: a Glastonbury nel 2007, durante i giochi Olimpici di Londra del 2012, nel 2015 a Roskilde (quando la combriccola fu cacciata dal palco avendo sforato il tempo a disposizione) e lo scorso 29 marzo – in coincidenza con la data fissata in origine per Brexit – a Waltham Forest, nel nord est londinese, con un happening durato sei ore, oltre a sortite in Etiopia, Mali, Nigeria e Repubblica Democratica del Congo.
Sul fronte discografico, invece, si ricordano la versione maliana della suite In C di Terry Riley (2014) e l’album dell’Orchestra of Syrian Musicians (2016). All’elenco si aggiunge ora EGOLI, frutto di una settimana di session svoltesi nel gennaio 2018 in studio a Johannesburg – il titolo deriva dal nome del luogo in idioma Xhosa: “città dell’oro” – cui hanno partecipato artisti locali e i forestieri guidati da Albarn.
«Eravamo come ragazzini in un negozio di dolciumi», ha commentato Moonchild Sanelly, astro nascente della scena sudafricana e protagonista di alcuni dei momenti migliori della raccolta: “I Can’t Move”, con groove electro funk corretto pop dal Damon touch, l’impertinente “Sizi” in stile gqom (evoluzione del kwaito, com’è detta l’house autoctona), dove la sedicente “avvocatessa dell’orgasmo femminile” si esibisce in una salace filastrocca sessuale (“Non smettere, afferra le palle, non frantumarle, accarezzale”), e il sensuale hip hop esotico “No Games”, con la star del grime britannico Ghetts.
Ci sono poi i veterani del posto: il chitarrista e cantante Phuzekhemisi, leggenda del folklore Zulu chiamato maskandi, al quale spetta il compito di aprire la sequenza in chiave tradizionale con l’appropriata “Welcome”, oppure le Mahotella Queens, titolari delle parti vocali in cinque episodi, da “See the World”, epilogo segnato dal tipico spleen modello Albarn, all’esuberante “City in Lights”, articolata sul canone dell’acholitronix, la dance da feste di matrimonio popolare in Uganda.
Fra i vari contributi spiccano quelli del gallese Gruff Rhys, al microfono in un paio dei pezzi forti del disco: la toccante ballata acustica “Absolutely Everything Is Pointing Towards the Light” e il contagioso inno a “Johannesburg”.
L’effetto d’insieme è piacevolissimo all’ascolto e confortante sul piano culturale: EGOLI non costituisce affatto un altro capitolo nella storia del colonialismo musicale euroamericano, al contrario dà risalto al suono contemporaneo del Sudafrica e ai suoi interpreti (fra cui Dj Spoko, morto prematuramente poco dopo aver dato forma qui all’elettrizzante “The Return of Bacardi”) disegnando un avvincente scenario afrofuturista.