L'Africa da Camera del Kronos Quartet
Il Trio Da Kali con il Kronos Quartet per un nuovo disco World Circuit
Era il 1992 quando il Kronos Quartet, oggi quasi archetipo della formazione cameristica occidentale a caccia di avventure sonore, fece uscire un disco che si intitolava Pieces of Africa. I “pezzi d'Africa” arrivavano da un'immensa porzione del Continente, un arco dipanabile tra Nubia egizia e Sudafrica. È passato un quarto di secolo, e il coraggioso quartetto sotto la guida di David Harrington non ha perso la voglia di suonare e di sperimentare. Mai come in questo caso vale la valenza semantica doppia del verbo che anglofoni e francofoni usano per chi pratica le note: “suonare” e “giocare”. Qui il gioco è affascinante e garantito sin dall'inizio, perché il Kronos ha cercato e trovato la collaborazione con uno dei gruppi più freschi e nuovi arrivati nell'ultimo decennio dall'Africa, il Trio Da Kali: canta Hawa Kassé Mady Diabaté, Fodé Lassana Diabaté è al balafon, e Mamadou Kouyjaté ha tra le braccia lo ngoni basso.
I cognomi sono rivelatori, per chi ha seguito le vicende delle musiche subsahariane: etnia mandè, area maliana e nomi che rimandano direttamente a nobili lignaggi di cantastorie sacri, i griot. Dunque la musica rientra a pieno titolo in quel passo narrativo fascinoso e irresistibile che fa capo alla scala pentatonica, con tutte le inflessioni fluttuanti che ci siamo abituati a riconoscere nel blues, e l'idea di ripetizione e variazione che placa e lascia ondeggiare il corpo.
Il Kronos riesce ad arricchire e vestire di colori e timbri nuovi la formula. Lo fa con procedimenti diversi ed ugualmente efficaci, all'interno delle semplici ma implacabili strutture delle note mandé: agendo come fondale di note lunghe e tenute, intervenendo all'opposto con rapide selve di colpi in staccato, quasi un semicoro blues che risponde alle chiamate del solista, doppiando le dolcissime frasi in ostinato tenute dallo ngoni, lambendo con arguzia piccoli momenti di espressiva e pilotata dissonanza. Il Trio, da par suo, in un pezzo svettante e imperioso come "God Shall Wipe" mostra dove sia la scaturigine afro delle pronunce vocali gospel. In ogni caso, un disco riuscito e che scorre come un fiume placido e robusto. I fatti alla base depongono decisamente a favore.