La preveggenza pop di Cassandra Jenkins

My Light, My Destroyer è il nuovo album della cantautrice newyorkese

Cassandra Jenkins
Disco
pop
Cassandra Jenkins
My Light, My Destroyer
Dead Oceans
2024

Cantautrice newyorkese che prima di dedicarsi alla musica aveva frequentato la Rhode Island School of Design ed era stata assistente editoriale al “New Yorker”, alla soglia dei 40 anni Cassandra Jenkins pubblica ora My Light, My Destroyer: terzo capitolo in una serie che si sarebbe dovuta interrompere dopo il precedente An Overview on Phenomenal Nature (2021), da lei annunciato come “canto del cigno”.

Il consenso riscosso da quel disco e gli esiti incoraggianti della tournée seguente le fecero cambiare idea, però. Nondimeno, la gestazione del nuovo lavoro è stata sofferta: cestinata la versione originaria, ne ha realizzata una seconda reclutando complici nel sottobosco cittadino.

Tra le fonti d’ispirazione ha indicato le scrittrici Rebecca Solnit e Maggie Nelson, mentre sul fronte musicale ha citato fra i tanti il compositore avant-garde Robert Ashley accanto Tom Petty.

Sembra tratta dal canzoniere di quest’ultimo “Clams Casino”, numero pop rock dall’impianto classico intestato al tipico antipasto americano a base di vongole, aperto da una dichiarazione d’intenti: “Non voglio più ridere da sola”. Il tono narrativo indugia sovente nella sfera dell’affettività: “Credo tu abbia scambiato la mia disperazione per devozione”, canta con voce vellutata, accompagnandosi alla chitarra, in “Devotion”, accogliente porta di accesso all’album.

Su lunghezza d’onda analoga scorre “Omakase”, da un vocabolo giapponese ricorrente nella ristorazione (quando ci si affida a chi cucina), ma riferito nella circostanza a una fragola da laboratorio di cui sogna di venire nutrita dal compagno, per altro fonte di sensazioni contrastanti (il titolo della raccolta, “Luce mia, mio distruttore”, arriva da qui).

A una relazione finita allude “Only One”, rievocando – fra arredi di sintetizzatore e lo spleen di una tromba in sordina – persino il mito di Sisifo nel descrivere una sofferenza – “Per quanto tempo durerà questo dolore nel petto?” – apparentemente insuperabile: “Sei l’unico che abbia mai amato, l’unico che so amare”.

Se quel brano segnala una prossimità a colleghe quali Julia Holter e Weyes Blood, altrove l’orizzonte sonoro propone sfumature differenti: l’umore vagamente jazz di “Tape and Tissue” per una situazione da batticuore (“Mi terrorizza l’incrocio dei nostri sguardi, ma se ti vedo non attraverserò sul lato opposto”), oppure il portamento cameristico degli archi in “Hayley”, traccia strumentale che conclude la sequenza.

Più canonico il folk rock di “Petco”, ambientato in un negozio d’animali, dove la protagonista si aggira dubbiosa: “Non voglio portarti a casa per cercare di essere meno sola”.

È invece un fioraio l’habitat commerciale di “Delphinium Blue” (nome di una pianta ornamentale, appunto), l’episodio a maggiore tasso di elettronica, impiegata anche nel disegno della melodia vocale, benché il tessuto poetico insista sul tasto delle emozioni umane: “Intorno a me sbocciano i narcisi, immagino che il sole ti colpisca, l’aria si riempie del loro profumo”.

La via di fuga dagli alti e bassi sentimentali potrebbe trovarsi nel cosmo: in “Betelgeuse” (luminosissimo astro nella costellazione di Orione) l’autrice dialoga con la madre Sandy, già insegnante di Scienze, e in “Aurora, IL” racconta il viaggio extraterrestre affrontato nel 2021 dal novantenne William Shatner (il capitano Kirk di Star Trek), diventato così “il più anziano uomo nello spazio”.

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