La preghiera nel vuoto di Nick Cave

Idiot Prayer documenta un concerto ai tempi del Covid-19, con Nick Cave da solo all'Alexandra Palace

Nick Cave Idiot Prayer live alone at the Alexandra Palace
Disco
pop
Nick Cave
Idiot Prayer
Mute
2020

Avviluppati come siamo – fisicamente e mentalmente – nella rete del Covid-19, osserviamo attoniti i mutamenti della vita circostante. Ci sono cose la cui esistenza è frutto esclusivo della situazione nella quale ci troviamo: ad esempio questo album dal vivo di Nick Cave, ramificazione discografica del prodotto audiovisivo diffuso il 23 luglio in streaming differito, che doveva – ma non ha potuto, causa chiusura delle sale – essere replicato poi al cinema.

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Per esorcizzare la sensazione d’impotenza suscitata dall’annullamento dei concerti in Europa e Nordamerica, previsti rispettivamente in primavera e autunno, l’artista australiano si era esibito il 19 giugno all’Alexandra Palace di Londra in solitudine quasi perfetta (giusto i tecnici necessari ad allestimento e riprese gli avevano fatto compagnia): voce e pianoforte (modello Fazioli, made in Friuli), nient’altro. Nonostante le parentele dichiarate dal protagonista con i precedenti documentari 20.000 Days on Earth (2014) e One More Time with Feeling (2016), per quanto attiene al medium, e l’esperienza del tour individuale Conversations With…, performance in cui alternava la conversazione con il pubblico alle canzoni, rese nella medesima forma spoglia che ascoltiamo qui, la risultante è infusa fatalmente dall’umore del momento.

Cave l’ha definita «una preghiera nel vuoto», cogliendone l’essenza: comunicazione spirituale al tempo del distanziamento. L’inizio è di grande effetto: entra in sala mentre la sua voce recita – senza alcun accompagnamento musicale – i versi di “Spinning Song”, ouverture di Ghosteen (“C’era una volta una canzone, la canzone agognava di essere cantata…”).

Al più recente lavoro da studio spetta altresì il compito di celebrare l’epilogo sulle note struggenti di "Galleon Ship".

Domina tuttavia il repertorio The Boatman’s Call, rappresentato da sei episodi, una metà esatta del totale: disco datato 1997 e segnato da profonde cicatrici sentimentali (la fine del primo matrimonio e dell’amour fou con PJ Harvey). Di là proviene il vero brano d’apertura, che intitola l’intera raccolta e il film, e non poteva mancare all’appello il classico “Into My Arms”, riproposto in maniera sobria ma ugualmente accorata, anche se una menzione speciale la merita “(Are You) The One That I’ve Been Waiting For?”, perché dopo aver distillato spleen per quattro minuti e mezzo Nick sbotta in una breve risata, avendo steccato il penultimo accordo sulla tastiera: guizzo di luce in un’ambientazione altrimenti crepuscolare.

Non è del resto pianista provetto: affronta piuttosto lo strumento con impeto emotivo, usandolo per sostenere l’impianto narrativo creato dalla voce, quella sì impareggiabile. La si apprezza nell’occasione quando assume tono predicatorio in “Palaces of Montezuma” (una delle due citazioni riservate ai Grinderman), oppure strozzata dal turbamento al principio di “Higgs Boson Blues” (“Non riesco a ricordare assolutamente nulla…”) e viceversa stentorea nel crescendo drammatico di “Jubilee Street”, entrambi da Push the Sky Away, benché apice dell’epica di Re Inkiostro rimanga incontrastato "The Mercy Seat", imperioso a dispetto dell’arredo minimalista. Unica composizione inedita nel programma è “Euthanasia”, memorabile anzitutto per il testo, sintetizzato nell’icastica ammissione: “Perdendomi, ho trovato me stesso”.

Potremmo prenderla alla lettera: una bussola nei giorni del nostro smarrimento. È questo il valore autentico di Idiot Prayer, in definitiva: opera il cui senso riguarda appunto la prova che stiamo affrontando, dunque appropriata anziché banalmente impeccabile.

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