La musica celtica "aperta" di Whisky Trail
Open è il nuovo lavoro dei Whisky Trail, dal celtismo anni Settanta a una (nuova?) psichedelia folk
Certamente un viaggiatore del passato, diciamo uno che negli anni Settanta ci stava benone, o quantomeno era a proprio agio nel ribollente calderone dei nuovi stimoli sonori che arrivavano tutti assieme da diversi mondi musicali, avrebbe qualche difficoltà a mettersi in sintonia con un disco di oggi marcato Whisky Trail, e acchiappare al volo qualche motivo di piena assonanza con quanto conosceva o credeva di conoscere.
Già, perché negli anni Settanta i Whisky Trail c’erano già. Dal 1975. E suonavano pura musica irlandese da manuale, pur essendo di base nella Penisola, non nell’Isola di Smeraldo. Poi il nastro dei decenni s’è srotolato, inesorabile e indifferente a tutti gli sforzi, le vanità, i vezzi ideologici e post ideologici, e la prima notizia potrebbe pur sempre essere quella, i Whisky Trail ci sono ancora.
Il viaggiatore del passato sicuramente spalancherebbe tanto d’occhi, oltre che di orecchie, perché quel suono gli sembrerebbe incredibilmente alieno. Caverebbe di tasca un bloc notes, in mancanza di uno smartphone con memoria per appunti vocali, e si appunterebbe il tutto con una serie di punti interrogativi.
Il problema è che anche un successivo viaggiatore, diciamo uno che abitasse con comodità gli anni Novanta, avrebbe motivi di perplessità, stavolta al contrario: sentirebbe qualcosa di molto familiare, e qualcosa di insolito. La frazione di familiarità lo riporterebbe a certe cose novantine di Dan Ar Braz, quando gli strumenti gaelici alzavano svettanti profili melodici contendendosi lo spazio con quelli elettrici ed elettronici, a un passo da certa non sgradevole temperie new age, quella meno fiacca e decorativa, però.
Usciamo dal giochino con le macchine del tempo. Open è il nuovo disco dei Whisky Trail. Che sono vivi, vegeti, e con tutti gli avvicendamenti di organico che i decenni di cui prima e le vicende della vita si portano appresso. C’è la vecchia quercia Stefano Corsi, che imbraccia con sicurezza l’arpa celtica e suona anche l’armonica, la chitarra elettrica fremente e lirica assieme di Paolo Lamuraglia, anche vocalist, la voce cristallina, l’harmonium e il bodhran di Valentina Corsi. Poi ci sono gli amici a dare una mano, Lorenzo Greppi col dulcimer, Marco Londi alla concertina, Claudia Tosi alla voce.
È un disco di una bellezza piena e avvolgente, Open, e potrebbe piacere molto anche a chi ama certe avventure lontane psych-prog floydiane, magari nella declinazione che porta avanti oggi uno come Bjorn Riis, o come a lungo ha fatto il citato Dan Ar Braz.
Dunque nessuno stretto filologismo gaelico, nel senso più “trad”, ma un gioco di suggestioni incrociate in cui le matrici gaeliche flirtano con matura spregiudicatezza con altre latitudini folk e rock, prendendosi tutti i rischi del caso, ma anche la soddisfazione di melodie memorabili e tessiture avvolgenti. E anche non prevedibili: perché Open, il brano che intitola il tutto nasce proprio come esperienza “aperta” a ogni genere di approccio improvvisativo, con la promessa che ogni volta che sarà eseguito avrà contenuti melodici e durata diversi. Qui offre un canto gilmouriano di chitarra su un tappeto di arpeggi. Chissà cosa sarà in futuro.