La legge del desiderio di Caroline Polachek
Desire, I Want to Turn Into You è l’album che tramuta l’artista statunitense in diva avant-pop
Eletta dagli organizzatori di C2C a figura emblematica della prossima edizione del festival, Caroline Polachek ne avvalora la scelta esibendo in Desire, I Want to Turn Into You la propria natura “avant-pop”.
Nelle interviste preliminari all’uscita del disco la 37enne artista newyorkese ha rivelato inoltre un legame insospettabile con l’Italia: tempo fa aveva raccontato al “New Yorker” di un soggiorno ai piedi dell’Etna, dov’era stata stregata dall’«energia ignota, tettonica e caotica che saliva da sotto». Si percepisce l’eco di quell’esperienza tra le righe di “Smoke”, penultima traccia in sequenza: “È solo fumo che fluttua sopra il vulcano”.
Di recente, poi, ha confidato a “Rolling Stone” una cotta per “Ti sento” dei Matia Bazar, captata casualmente durante una vacanza romana: «La performance vocale della cantante dà la sensazione che gli occhi stiano per uscirle dal cranio: è intensissima, come fosse folgorata. Quella canzone è diventata per me una specie di faro su dove volevo andare e cosa volevo ottenere».
Probabile derivi da lì l’orchestrazione anni Ottanta nella quale sfocia “I Believe”, animata viceversa da una pulsazione di scuola 2-step. Il campionario geografico esposto nell’occasione è zeppo di altre suggestioni “esotiche”: “Sunset”, ad esempio, profuma di Spagna, con un arpeggio di chitarra da flamenco e la voce flessuosa che sembra emulare i gorgheggi di Rosalía, a dispetto di una narrazione dal tono e esistenzialista (“In questi giorni indosso il mio corpo come un ospite indesiderato”, oppure “Mi vesto di nero per compiangere la perdita improvvisa dell’innocenza”).
L’intreccio emotivo da cui scaturisce l’ispirazione è simboleggiato dal brano d’apertura, “Welcome to My Island”, che dopo un convenevole da femme fatale in versione balneare (“Benvenuti sulla mia isola, spero di piacervi, non ve ne andrete”) sprofonda in una rievocazione del problematico habitat familiare (“Alla fine sono figlia di mio padre, lui dice: ‘Bada al tuo ego, bada alla tua testa, bimba, sei sveglia, hai talento, ma adesso l’acqua sta diventando rossa ed è tutta colpa tua, un casino che hai combinato tu’”).
Alti e bassi rimarcati da uno sviluppo musicale che a slanci melodrammatici alterna nonchalance electro pop.
A creare il profilo sonoro di Desire… ha contribuito, come già nel precedente Pang (2019), Danny L Harle, produttore associato al collettivo “hyperpop” londinese PC Music: si deve a lui il carattere – definizione della protagonista – «molto massimalista» che pervade il nuovo lavoro, primo presagio del quale fu – due estati fa – “Bunny Is a Rider”, nominata pochi mesi più tardi “canzone dell’anno” da “Pitchfork” e tuttora efficacissima nella descrizione di una ragazza che sfugge alla localizzazione satellitare su cadenza da dembow antillano. “Credo che essere offline e disconnessa sia la cosa più sexy che esista”, ha affermato ultimamente l’autrice, rincarando la dose.
Se in termini lessicali colpisce uno spiccato gusto per i neologismi (strada facendo troviamo vocaboli traducibili in “miticologico”, “wikipedizziato” e “cornucopico”), sul piano degli arrangiamenti si notano alcuni vezzi disorientanti, tipo l’inopinato assolo di cornamusa che conclude un’escursione su moderato ritmo house in “Blood and Butter” o il coro infantile posto al culmine di “Billions”, episodio di chiusura scandito da un battito di tabla.
“Mente come un marinaio, ma ama come un pittore”, la si ascolta cantare qui a un certo punto: allusione all’amore cui si riferiscono altresì il titolo dell’album, che esprime l’intenzione di tramutarsi in desiderio o divenire tutt’uno con il partner, e la data di pubblicazione, fissata intenzionalmente per San Valentino. Sentimenti da donna padrona del proprio destino, immedesimata – per sua stessa ammissione – nei personaggi femminili dei film di Pedro Almodóvar, influenzata da artiste quali Björk e Fiona Apple (“in grado di reclamare attenzione senza cedere a compromessi”, a suo dire) ed emancipata dispensatrice di sex appeal alla maniera di St. Vincent, Caroline Polachek aspira legittimamente al rango di diva alternativa: una “Kate Bush per la generazione Z”, ha decretato in gennaio “The Guardian”.