La fenice Eartheater
Nel nuovo album Phoenix Alexandra Drewchin mette a fuoco il proprio folk sperimentale
Con una copertina del genere ci si potrebbe aspettare dell’heavy metal o qualcosa di almeno altrettanto violento. Così non è. Anzi: a un ascolto distratto lo si percepisce come una sorta di folk venata tutt’al più da accenti gotici. La trentunenne statunitense Alexandra Drewchin, in arte Eartheater (“mangiaterra” è una specie di ciclidi – nome scientifico: Geophagus – che popola i corsi d’acqua della foresta pluviale amazzonica), offre però musica a doppio taglio: soffice in apparenza, ma abrasiva al contatto.
Del resto, lo stesso sottotitolo del nuovo album – quarto della serie per lei in cinque anni e secondo per l’indipendente tedesca PAN, già editrice del precedente IRISIRI – propone un’antinomia: “Le fiamme sono rugiada sulla mia pelle”, affermazione che spiega l’immagine dov’è ritratta provocatoriamente, lambita da scintille, in posa luciferina. Per trovarne un’eco nel disco, indugiamo su “How to Fight”: “La mia forza è stata forgiata nel fuoco del dolore”, racconta a un certo punto con intonazione tenue e indolente su scarni accordi di chitarra, a tratti contrastati dalla cadenza funerea di una batteria sintetica. È l’annuncio di chi è pronto a rinascere dalle proprie ceneri, tipo la Fenice cui l’opera appunto è intitolata.
Frutto di una gestazione compiuta a Saragozza nell’autunno 2019, durante una residenza artistica di dieci settimane per il ciclo “FUGA”, Phoenix si avvale della partecipazione dell’Ensemble de Cámara, formazione d’archi del conservatorio locale che conferisce qualità cameristiche allo struggente strumentale “Metallic Taste of Patience” e all’episodio conclusivo, “Faith Consuming Hope”, dalla malinconica solennità melò. In “Below the Clavicle” l’effetto è rafforzato dall’arpa della connazionale Marilu Donovan, su cui Drewchin sfoggia nevrotici guizzi di falsetto diffondendo inquietudine: “Silenziosa come il sangue sul mio letto”.
La tensione, in verità costante, raggiunge il climax nell’artificiale coralità barocca di “Mercurial Nerve”, ambasciatrice di una sacralità pagana che non avrebbe sfigurato nel “Suspiria” di Luca Guadagnino. E d’altra parte vi sono brevi intermezzi di scuola rumorista, “Burning Feather” e “Goodbye Diamond”, che restituiscono pienamente l’attitudine radicale nascosta fra le pieghe della personalità complessa della protagonista e maggiormente in evidenza nei lavori antecedenti. Al centro della sequenza, immaginiamo non casualmente, sta tuttavia “Volcano”: ammaliante ballata pervasa da un’atmosfera idilliaca nella quale l’autrice riassume la propria azione in forma metaforica. “Sto costruendo montagne nel sottosuolo”, canta.
Performer e artista visiva, oltre che compositrice di talento e interprete dotata di un’estensione vocale su tre ottave, Eartheater è personaggio destinato ad affermarsi al di fuori dei circuiti “avant-garde” in cui ha mosso i passi iniziali della carriera: prova ne sia lo showcase sulla passerella della “Paris Fashion Week” di due anni fa per conto della casa di moda berlinese Ottolinger. Irradiando erotismo alieno, potrebbe diventare davvero una diva, ancorché di natura ineffabile.