Koreless: house da camera
Nell’album d’esordio Agor il produttore gallese Koreless prova a rendere “classica” la dance music
Di Koreless si sa che aveva un nonno esorcista, addirittura autore di un libro – Holy Ghostbuster – sul tema, ed è avido lettore di fantascienza, Ballard in particolare, con una predilezione per l’anatomia degli incidenti automobilistici descritta in Crash: «Eventi violenti che accadono così lentamente da diventare quasi meravigliosi», afferma.
Gallese emigrato a Glasgow per ragioni di studio (è laureato in Ingegneria Navale), il trentenne Lewis Roberts agisce dall’inizio del decennio scorso sotto lo pseudonimo Koreless, con il quale aveva firmato finora un paio di EP e alcuni singoli, oltre a lavorare insieme a Sampha, SBTRKT e soprattutto FKA Twigs, in occasione del quotatissimo Magdalene: una presenza defilata nel panorama del suono elettronico contemporaneo, dunque, conforme al temperamento elusivo del personaggio.
Adesso viene il suo momento: Agor – intitolato con il vocabolo che in gaelico significa “aperto” – è il primo album in carriera, dopo cinque anni di preparazione. Considerandone la taglia, una decina di tracce nell’arco di poco più di mezz’ora, verrebbe da usare il frusto adagio a proposito del topolino partorito dalla montagna. L’interessato spiega che ciò è dovuto a una cura maniacale del dettaglio, paragonandola alla pignoleria con cui Derek Jarman riscrisse 17 volte la sceneggiatura di Caravaggio, prima di giungere alla versione definitiva. Esaurite le premesse, dovendone localizzare il senso espressivo, è utile identificare i vettori dominanti: da un lato un’aspirazione neoclassica (manifestata di recente nella reinvenzione di “Moonlight”, uno dei Four Sea Interludes dall’opera Peter Grimes di Benjamin Britten) e dall’altro l’elaborazione stilizzata di certi canoni della dance music.
Da quest’ultimo punto di vista, sono esemplari i riff sintetici che indirizzano brani quali “Act(s)” e “Shellshock”, punteggiati da una voce femminile resa aliena processandola attraverso codici binari, quando in “Black Rainbow” è come se un’euforia da rave fosse stata liofilizzata.
Sul fronte opposto spiccano viceversa l’ambient serafica di “Stranger”, in chiusura di sequenza, e l’architettura cameristica di “Frozen”, mentre gli episodi in cui l’amalgama tra i due fattori in gioco suona più fluido sono “White Picket Fence” e “Joy Squad”.
Ancorché non originalissimo (curiosamente sollecita ad analogie con i produttori nostrani Mana, nell’approccio all’avanguardia accademica, e Lorenzo Senni, nel trattamento “puntillista” della sintassi house), l’esperimento tentato da Koreless in Agor può dirsi comunque riuscito.