Kelman Duran, il reggaeton nel deserto
La musica di Kelman Duran è musica per ballare, ma percorsa da inquietudini contemporanee
Per il calendario lunare dei nativi americani Lakota l’anno è composto da 13 mesi e il tredicesimo mese è quello che ha visto la realizzazione, dopo 1804 Kids del 2017, del secondo lavoro di Kelman Duran, che per questo 13th Month ha tratto ispirazione dai suoi soggiorni nella riserva indiana di Pine Ridge.in South Dakota.
Trentaquattro anni, nato a La Ermita, paesino affondato in mezzo al nulla nel centro della Repubblica Dominicana, Kelman Duran all’età di cinque anni si riunisce con la famiglia a New York, nel quartiere di Washington Heights, area a prevalenza dominicana a nord di Harlem.
Siamo alla fine degli anni Ottanta, il crack picchia duro nelle strade del quartiere, è una zona di guerra: le sparatorie sono la regola e la polizia fa irruzioni negli appartamenti alla ricerca degli spacciatori, buttando giù porte e finestre. Potete immaginare lo shock di un bambino abituato a vivere in campagna che, per sua stessa ammissione, non conosceva il significato della parola “povertà”.
La musica del quartiere è il reggaeton. Si sente ovunque, esce dalle auto, esce dalle bodegas, si balla nei club, si balla a scuola (Kelman frequenta la LaGuardia High School e conosce Nicki Minaj). L’interesse per la musica comincia con l’ascolto dei mixtape di DJ Playero, un dj portoricano progenitore del reggaeton, uno che mischia hardcore rap, ritmi dancehall e testi in spagnolo.
All’inizio l’approccio di Kelman è simile ma questo nuovo lavoro segna un’evoluzione: «Se penso a New York vedo solo mattoni; da quasi dieci anni risiedo a Los Angeles e ho riscoperto lo spazio, quando vado nel deserto rimango sempre sorpreso da quanto distante riesca a vedere. A New York i loop sono corti, asciutti, a Los Angeles viaggiano più veloci e vanno più lontano».
Quanto riportato si riflette nella sua nuova musica, meno interessata al dancefloor, squarciata com’è da aperture ambient.
I primi due brani del disco sono lunghi rispettivamente 11 e 14 minuti, divisi in tre movimenti, con l’obiettivo di dare un formato classico alla dancehall. Nel primo pezzo il ritmo dembow ci mette quasi sette minuti a emergere da una nebbia sonora che fa venire alla mente il nome di Burial: c’è la stessa nostalgia di un suono che è solo un ricordo, è quello che sentiamo sulle scale che ci portano dal club all’aria aperta, semi-coperto dalle voci delle altre persone, lo stesso desiderio di mettere insieme elementi ritmici diversi, annegati in un riverbero gracchiante, per creare qualcosa di unitario ed evocativo
Nelle altre canzoni ricompare lo schema usato nel disco precedente, un mix feroce di reggaeton, gqom, kuduro, hip-hop, voci distorte, Autotune, il campionamento di un coro di chiesa danese e ritmi robotici.
"Gravity Graves II", un altro dei pezzi forti della raccolta è aperto dalla voce di Notorious B.I.G., presa da "Suicidal Thoughts", che declama «lo giuro su Dio, voglio solo tagliarmi i polsi e farla finita con ‘sta stronzata» su un inquietante loop di synth, e prosegue con una voce presa dal documentario al quale Kelman lavora da sei anni, To the North, che ci ricorda che «la percentuale di suicidi a Pine Ridge è la più alta di qualsiasi altra nazionalità negli Stati Uniti. Lo stesso vale per gli adolescenti e ci lascia senza parole. Succede perché qui non c’è nulla per i nostri giovani. Qui non c’è assolutamente nulla».
Quella di Kelman Duran è ancora musica per ballare ma percorsa da tutte quelle inquietudini a cui non vogliamo pensare quando entriamo in un club.
“Agarrame fuerte y no me sueltes”