Iztok Koren, vuoti e pieni

Praznina/Emptiness è il secondo album solista di Iztok Koren dei Širom

Iztok Koren
Iztok Koren
Disco
oltre
Iztok Koren
Praznina/Emptiness
Torto
2023

Un terzo dei Širom, il magico trio sloveno dove suona soprattutto percussioni e banjo, Iztok Koren giunge al suo secondo lavoro solista pubblicato dalla piccola e gagliarda etichetta genovese Torto, dedita ai suoni non allineati e gestita dal bravo contrabbassista Tommaso Rolando, in coproduzione con l’australiana Ramble Records.

– Leggi anche: Širom, sembra folk ma non è

Ascoltiamo dodici tracce senza titolo in cui il polistrumentista  armeggia con banjo, guembri, chitarra elettrica, synth modulare, microfoni a contatto, percussioni, steel drum e balafon.

Come nel caso di Samo Kutin e Ana Kravanja, suoi sodali nei Širom, siamo al cospetto di un musicista impegnato in tanti progetti, anche distanti tra loro: da questa veste minimal folk intimista, al post rock post-prog di Škm banda, sino al noise industrial hardcore di Hexenbrutal (trovate tutto sul suo sito).

In questo nuovo album, che segue il debutto Lonely Hymns and Pillars of Emptiness di due anni fa sempre su Torto (responsabile anche della pubblicazione della ristampa del primo lavoro di Širom , I) colpiscono il segno le arie vagamente orientali e le risonanze della seconda traccia, che poi però deraglia senza troppo costrutto in una coda elettronica, che suona non perfettamente a fuoco anche quando si innesta sulle scabre percussioni della terza.

Le arie più o meno tradizionali suonate con approccio minimale al banjo hanno la loro poesia dolente, quasi una versione slava e asciutta di certo post-rock e anche il groove del guembri e le trasfigurazioni del banjo, mutato in altro con l’uso di archetto e pedali,  funzionano e sono capaci di portarci altrove come sa fare la musica del trio madre, che sta inesorabilmente catturando l’attenzione di tanti.

L’impressione però è che in questo disco ci siano sì buoni spunti, e dal punto di vista timbrico e sotto l’aspetto squisitamente melodico, ma che spesso questi  tali restino e che manchi una scintilla tale da rendere il lavoro continuo. La nona traccia (sono dodici in tutto, per quasi ottanta minuti: troppi) ad esempio è slow-core senza particolari sussulti, come lo avremmo ascoltato nei Novanta, quando indie ancora non era una parola che ci infastidiva a scrivere o a sentire, ma è tutta la sinfonia in questo caso a lasciare qualche dubbio.

Ci sono buone idee in nuce, alcune anche ben sviluppate, voglia e coraggio di spaziare, ma vale qui la regola aurea: less is more. E allora, una tantum, la notizia è l’aver scovato meno oro del solito in un manufatto proveniente dalla fucina creativa attorno a Lubiana.

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