Il Valhalla pomposo dei Sigur Rós
Arriva su disco un vecchio progetto del 2002 della band islandese, che sconfina nella musica classica e inciampa nella grandeur
Lo s’intuisce dal canale di distribuzione: Warner Classics. Il nuovo lavoro intestato ai Sigur Rós – da sette anni latitanti sul fronte discografico: tanto è trascorso da Kveikur e nel frattempo la formazione islandese si è assottigliata a duo, Jón Þór "Jónsi" Birgisson e Georg "Goggi" Holm i sopravvissuti – devia dal corso abituale per approdare all’ambito classico, appunto.
Ciò premesso, va indagata la natura del progetto, che in effetti nuovo non è. L’album documenta un’esecuzione dal vivo del settembre 2004, presso la Grande Halle de la Villette di Parigi, della composizione presentata in anteprima al Barbican di Londra nell’aprile 2002 e replicata un mese dopo al Reykjavik Arts Festival, titolare dell’operazione. Spunto narrativo di Odin’s Raven Magic, suggerito dal connazionale Hilmar Örn Hilmarsson, era stato l’antico poema Hrafnagaldr Óðins: sezione considerata a lungo apocrifa, ma ultimamente legittimata, dell’epopea mitologica chiamata Edda (fonte d’ispirazione per Tolkien e George R. R. Martin), dov’è descritto con fervore gotico un banchetto fra le divinità del Valhalla, durante il quale affiorano presagi di un’apocalisse imminente. Divisa in otto brani, o forse sarebbe meglio dire movimenti, considerato il contesto, la partitura – arrangiata da Kjartan Sveinsson, ora non più in organico, e Maria Huld Markan Sigfúsdóttir, dal collettivo Amiina – procede su un impervio crinale di confine fra “avant-pop”, classica di scuola mitteleuropea e tradizione nordica. Cosicché a tratti – ad esempio in “Hvert Stefnir” – sembra di percepire l’eco lontana dei Carmina Burana di Carl Orff e altrove – il “Prologus” iniziale – viene in mente il malinconico sinfonismo di Henryk Górecki. Ma non siamo a quei livelli, ovviamente.
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Più avvincenti sono gli episodi in cui a tessere la trama musicale è il suono invitante dell’imponente marimba in pietra costruita dall’artista Páll Guðmundsson, in particolare “Dvergmál”, che in termini di scrittura si approssima alle produzioni precedenti del gruppo, e “Stendur Ӕva”, caratterizzato dalla voce miagolante di Jónsi.
L’alchimia è complessa da far funzionare, tuttavia, essendo numerosi e non sempre in armonia i vari fattori in gioco: i solisti francesi dell’Orchestre des Laureats du Conservatoire National, il coro della Schola Cantorum di Reykjavik, le apparecchiature elettroniche e gli altri strumenti – chitarra, basso e batteria – manovrati dalla band, oltre al canto dolente di Steindór Andersen, affermato interprete del folklore isolano, nonché pescatore di mestiere. Esemplare di tale difficoltà è l’epilogo, “Dagrenning”, il cui caotico crescendo finale rivela l’entità esorbitante dell’ambizione che informa l’opera.
In fondo il problema resta il solito: quando i protagonisti del “rock” – ancorché i Sigur Rós lo siano sui generis – indossano l’abito da sera, quasi volessero dimostrare di avere status da “veri” musicisti, finiscono per svelare un implicito e invincibile complesso d’inferiorità rispetto alla sfera accademica, rimanendone soggiogati.