Il suono grosso del Muro del Canto

L'amore mio non more è il quarto disco per il gruppo romano, un folk rock possente e profondo

Il muro del canto
Il muro del canto
Disco
pop
Il Muro del Canto
L'amore mio non muore
Goodfellas
2018

Un serpente, un pettirosso, un orologio antico da panciotto che segna l'una meno dieci. Se è giorno è quasi presto per pranzare, a Roma. Se è la notte appena sboccata nel giorno che segue è spazio aperto per la pulsazione della città. Minaccia o gratificazione, non è dato saperlo. Il pettirosso potrebbe essere indizio di capacità di resistenza. Contro tutto e contro tutti, come De André cantava: un “pettirosso da combattimento”. Il serpente un male antico che avvolge nelle spire la città eterna e la stritola in cerchi suadenti e mefitici.

Ecco la cover del nuovo disco del Muro del Canto, il quarto, parecchio atteso da chi crede che le storie delle canzoni che hanno senso non finiscano mai: cambiano e si adattano, trovano nuove nicchie abitabili, non promettono nulla e poi, a saperle ascoltare, ti trovi lì che batti il piede e ti viene l’impulso di imparartele a memoria, certe strofe. Il Muro del Canto è cresciuto, e bene. Un nuovo livello di consapevolezza sui propri (notevoli) mezzi sembra essere attrezzatura comoda per Daniele Coccia Paifelman, voce amara, grande e grossa del gruppo, e autore di testi che qualche unghiata nell'anima sanno ancora imprimerla.

Il Muro del Canto, lo sappiamo, ha un suono gonfio, pieno, mai retorico: esattamente come la voce di Coccia. Molto western e morriconiano. E con qualche novità di rilievo, che non stravolge ma neppure lascia intatta tutta la grana del suono. Che è, come da nome di gruppo, un “muro” di “canto”. E dunque dev'essere spesso, possente, e lasciar spazio a una declinazione vocale che lasci tracce melodiche di rilievo. Sembra un suono riempito con tutti quegli espedienti popolari che servono per gonfiarti la pancia quando hai poca sostanza e troppa fame. E alla fine la sostanza c'è, anche se è di (magnifica) risulta, come lo scavo di un cantiere. E allora qui ecco i monologhi amari e disperati di Alessandro Piervanti, voce narrante e batteria, e alcune “prime volte” di rilievo: due testi in italiano, e "Al tempo del sole", che introduce ritmiche in levare, La vita è una, infettata da uno ska che cede il passo a un quattro quarti furioso, e gli echi mariachi di "Senza 'na stella", che racconta la stanchezza di una donna.

Il resto è quel folk rock possente e filante che acchiappa nella sua corrente anche l'agrodolce: vedi ad esempio alla voce "L'amore mio non more", che così narra: “Er male che m'hai fatto nun è gniente / no m'è sembrato poi così speciale/ er bene resta a me è robba mia/ e lascia lavorà la fantasia”. È poi raccattare da una moto in corsa sulle buche il fantasma di Lando Fiorini, e torcere un tre quarti in furibondo quattro. E poi la voce grande come quella di Coccia e speculare dell’ospite Lavinia Mancusi, e molto altro. Che gran disco. 

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