Il sospiro profondo di Marika Hackman
Big Sigh è il nuovo album della cantautrice britannica
A Marika Hackman, trentunenne cantautrice inglese piuttosto quotata in patria, è occorso del tempo per dar seguito al precedente Any Human Friend, uscito nell’estate del 2019.
In verità l’anno dopo aveva pubblicato Covers, raccolta di materiale altrui – da Beyoncé a Elliott Smith, passando dagli Air – che sembrava facesse eco all’avventura adolescenziale in una cover band chiamata The Clementines, dove suonava accanto alla futura attrice e supermodella Cara Delevingne.
La sua carriera individuale sarebbe cominciata nel 2012 ancora in quel solco con l’Ep Free Covers (tra le fonti: Nico, Dusty Springfield e Nirvana), da cui successivamente si è emancipata accumulando altri quattro EP e tre album nell’arco di poco più di un quinquennio.
Poi, appunto, il lungo silenzio del quale si diceva, dovuto agli effetti della pandemia e a un ripensamento esistenziale che si riflette nel contenuto di Big Sigh: condensato delle esperienze precedenti («Questo disco ha la pacatezza e quella sensazione di prossimità del primo, ma anche l’abrasività e l’irruenza del secondo e del terzo», ha affermato in un’intervista concessa a “DIYMag”) architettato da lei stessa, all’esordio nel ruolo di produttrice.
Sul piano narrativo l’intenzione è spregiudicatamente autobiografica: sulla scia dell’introduttivo “The Ground” – rarefatto sketch ambient costruito intorno a un haiku: “L’oro è sulla terra, per un po’ sono stata felice” – arriva “No Caffeine”, che snocciola con grazia pop un breviario di antidoti agli attacchi di panico (“Tieni la mente occupata, non rimanere a casa, parla con tutti i tuoi amici, ma non guardare il telefono, urla in un sacchetto, cerca di spegnere il cervello, fai una tisana, non vomitare, ricorda come respirare”).
Dominano la scena i sentimenti, che si tratti delle turbolenze da innamoramento, nella ballata d’impronta indie rock “Slime” (da “Ti vedo strisciare nella mia camera da letto” a “Fammi fare un giro nel tuo giardino di melma e ti mostrerò il mio”), ovvero dei postumi di una storia andata a rotoli, nel caso di “Hanging”, che nasce distillando spleen (“Beh, devo aver fatto qualcosa per meritare di sentirmi così triste”) e dà forma quindi al disagio (“Ogni volta che parliamo soffoco”), sfogando infine la tensione nel crescendo di chiusura.
A dettare l’andamento dei brani sono in genere la chitarra (ad esempio in “Blood”: “Perché vuoi bere il mio sangue, pensi di essere davvero innamorata?”) o il pianoforte (nella parentesi d’ameublement “The Lonely House”), con misurati arredi di archi e fiati (unici strumenti non maneggiati personalmente dalla protagonista), ma in dotazione c’è pure un sintetizzatore, risorsa principale in “Vitamins”: quadretto familiare dal gusto agrodolce (“Mamma dice che sono pelle sprecata, un sacco di merda e ossigeno, mentre papà pensa che potrei valere qualcosa, se prendo le vitamine”).
L’alta intensità emotiva del repertorio sfocia all’epilogo in “The Yellow Mile”, canzone dal tono sommesso che nasconde tra le pieghe un carico di amarezza: “Ho lasciato che ti prendessi cura del mio corpo, mi hai chiamato bambolina e mi hai tagliato i capelli, mi hai strappato le ali e io mi sono afflosciata, ero uno scarafaggio supino”.
Ispirazione genuina, scrittura musicale sobria ed elegante, poetica incisiva: argomenti nell’insieme bastanti a rendere Big Sigh titolo degno di nota nell’anno appena cominciato.