Il ritorno dei Fratelli Mancuso
Manzamà (per Squilibri) segna il ritorno dei Fratelli Mancuso dopo 10 anni; tra gli ospiti, Franco Battiato
Il tempo ci tende delle belle trappole creative, come ci insegna la fisica moderna. Ci viviamo dentro anche se, come diceva Antonio Tabucchi, non si capisce bene se siamo noi che lo attraversiamo, o esattamente il contrario. Il tempo, ci racconta la fisica moderna, non esiste se non a misura di esseri umani. Per questo forse, a volte, lo scorrere del medesimo ci fa l'effetto degli scarti improvvisi della pernice o della lepre quando il cacciatore manca il bersaglio, o, meglio ancora, del salto della quaglia: quando tutto è perduto, un'improvvisa giravolta su se stessa ed ecco che l'inseguitore si trova per una frazione disorientato, trovandosi inseguito.
Queste considerazioni saltano fuori all'ascolto di certe musiche. Che sono lontane nel tempo, appunto, e sembrano invece arrivare da un qualche futuro anteriore. Oppure sono assolutamente contemporanee, e uno ha il sospetto, ad ascoltarle, che siano state apparecchiate da un viaggiatore del passato. Pensate, per qualche esempio, alle note di Arvo Pärt. Dei Can. Di Jan Garbarek. Dei Fratelli Mancuso. Che tornano, a proposito di tempo misurabile secondo i canoni consueti, dopo uno iato di dieci anni. Una vita, dal punto di vista del mercato discografico. Ma potrebbero essere passati sei mesi o sei anni, sarebbe lo stesso. Esiste un'arte profonda, che non patisce né le ingiurie del quotidiano, né quelle del futuro. Calza e veste il proprio tempo come la forma dell'acqua di cui scriveva Andrea Camilleri: si adatta.
I Fratelli Mancuso si portano dentro una sapienza antica, carsica, un po' come il loro conterraneo Alfio Antico. Per questo disco che ha una strana, ammaliante intensità onirica si sono fatti aiutare da un parterre di ospiti strepitosi, e che pure non fanno mai la figura di medagliette al merito appuntate a maggior brillantezza della confezione. Qui chi collabora, appunto, collabora: e svanisce sullo sfondo, con un'iridescente consistenza. Si tratta, per citare qualcuno, di un ritrovato Franco Battiato, che arrangia il quartetto d'archi in cinque brani, di Aldo Giordano (arrangiatore in altri quattro, e pianista), di Giovanni Sollima, che presta il suo violoncello gonfio d'armonici in tre dei brani più struggenti, di Marco Betta al pianoforte, del magnifico Mario Arcari a duduk, oboe, launeddas, clarinetto: l'uomo che “costruì” assieme a Pagani il suono del disco delle “mulattiere di mare” di De André. E molti altri ancora. Una festa discreta di corde, ance, pelli tese, strumenti antichi, popolari, contemporanei.
Tutto ha funzionato, tutto ha la sua nicchia. Ronzano e incantano le pronunce nasalizzate dei fratelli siciliani, il gioco d'alternanza mette in conto picchi scabri e vertiginosi di terze creando quell'effetto magico che spesso ha solo la vera musica popolare. Difficile indicare vertici in un disco fatto di altezze: chi scrive ha trovato un'intensità quasi dolorosa all'ascolto di "Occhi di vitru" e "Deus Meus", una lamentazione che sembra lanciare un ponte fatato tra il canto a cuncordu sardo e quello delle Passioni della grande isola a triangolo.