Il ritorno degli Autechre
Il nuovo album degli Autechre, SIGN, combina avanguardia ed emotività
Soliti titoli sibillini. Nessun video preliminare. Né tantomeno un comunicato stampa per orizzontarsi. Tipico degli Autechre: laconici ambasciatori di ciò che oziosamente è in uso chiamare “intelligent dance music”, denominazione da loro giudicata “ridicola”.
Insieme da più di tre decenni e ora intorno alla soglia dei cinquant'anni, Sean Booth e Rob Brown hanno percorso un cammino che li ha portati dalla passione adolescenziale per l’hip hop alle frontiere dell’avanguardia accademica (in un’intervista concessa nel 2003 a “The Wire” indicavano tra le proprie fonti d’ispirazione Edgar Varèse, György Ligeti e Iannis Xenakis).
Temporaneamente in streaming integrale la sera dell’8 ottobre e adesso disponibile nei canali commerciali, SIGN è l’album numero 14 della serie, come tutti i precedenti targato Warp: primo concepito in maniera organica da Exai (2013), visto che i successivi elseq 1-5 (2016) e il monumentale NTS Sessions 1-4 (2018) erano assemblaggi di materiali creati a sé stanti.
L’inizio è aspro: un rombo di motore viene deformato per generare un habitat sonoro dalle ostili sembianze rumoriste, ma nel giro di un centinaio di secondi “M4 Lema” muta aspetto sull’onda di una cadenza cavernosa associata a una straniante ariosità armonica, veleggiando verso i nove minuti. Al contrario, il seguente “F7” non ha propulsione ritmica, benché gli arpeggi di sintetizzatore riecheggino l’euforia in crescendo di certa house da rave: indizio di uno slancio emotivo inconsueto per le abitudini del duo britannico, cui dopo si aggiungono quelli rappresentati dalla solennità sinfonica di “esc desc” e dall’ambient idilliaca di “Metaz form8”. Interpellati di recente dal “New York Times” sulla natura dell’opera, l’hanno definita – per bocca di Booth – «stranamente discordante, come fosse un po’ troppo reale» e spiegato poi di averla realizzata in remoto, scambiandosi file audio e modificandoli vicendevolmente (procedura già sperimentata in passato, per altro).
Accadeva prima della quarantena, anticipandone gli standard di comportamento. Ragion per cui, del tutto incidentalmente, si tratta di musica in sintonia con la nostra condizione attuale. Non esattamente disco di facile ascolto, anche quando prende velocità (la techno austera di “au14” e invece mesta in “psin AM”) o sale in tonalità maggiore (l’epica soffocata di “th red a”), a lungo andare SIGN esercita comunque un fascino enigmatico al quale è difficile – e a conti fatti insensato – sottrarsi.