Il pop “emotivo” di Claire Rousay
sentiment è il nuovo album dell’artista transgender canadese
Avevamo intercettato Claire Rousay, artista canadese di nascita ma cresciuta negli Stati Uniti, quando catturava intorno a sé i “suoni della quotidianità” per farne musica concreta, ai tempi di Everything Perfect Is Already Here: tassello fra i più significativi di un intricato mosaico discografico allestito in cinque anni appena e documentato dal repertorio esposto su Bandcamp, grazie al quale è entrata nei radar dell’indipendente Thrill Jockey, che l’ha scritturata e pubblica ora sentiment.
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Si tratta di uno scarto dal tragitto avant-garde seguito finora, nella forma e nella sostanza: “Ultimamente sto cercando di comunicare i miei sentimenti e le mie idee nel modo più chiaro possibile, e questa volta il pop mi è sembrato la maniera migliore per farlo”, ha spiegato lei preliminarmente.
Agli esordi, volendo descrivere il proprio linguaggio, aveva creato per gioco l’etichetta “emo ambient”, divenuta di uso corrente dopo l’imprimatur del “New York Times”, senza che ciò corrispondesse necessariamente allo schema della canzone, come viceversa accade qui. Trapela così in controluce la sua passione giovanile per Elliott Smith, benché intuibile in termini di affinità poetica più che di prerogative squisitamente musicali: l’atmosfera “da cameretta”, suggerita dalla foto di copertina, e l’umore crepuscolare incorniciano una sensazione di vulnerabilità. Il titolo dell’album ne esprime il soggetto narrativo: un’odissea dei sensi ad alto tasso emotivo.
A definire il tono, aprendo la sequenza, provvede “4pm”, monologo recitato dal giovane compositore neoclassico Theodore Cale Schafer, che a un certo punto dice: “È una lettera all’universo, implorando che il dolore si attenui, il pianto diminuisca e torni la mia capacità di funzionare”. Per ascoltare invece la protagonista bisogna attendere “head”: “Trascorrere metà della mia vita a farti pompini, nel caso in cui tu un giorno abbia bisogno di perdonarmi per qualcosa che ho fatto”, canta avvilita attraverso il filtro dell’Auto-Tune su un mesto arpeggio di chitarra.
La voce deformata da quell’effetto è tratto distintivo dell’intero album e finisce per rappresentare in modo implicito l’identità dell’autrice, dichiaratamente transgender.
Ammirevole la schiettezza con la quale denuda la geometria delle relazioni, tra euforie e delusioni. In “asking for it”, ballata breve, lenta e solenne, confessa: “Comunque sto mandando tutto a puttane, ci saranno cento gradi e sto sudando da matti, perché mi fai gli occhi dolci”.
Lo scenario è in genere notturno: “Prima i brindisi al bar, poi comincia in bagno, bocche piene di lingua nel buio, ubriaca con lui nel tuo appartamento, esplosioni mentali delle parti migliori”, racconta “it could be anything” su cadenza da slowcore, con un fraseggio di violino a potenziarne lo spleen.
L’orchestrazione dei brani è essenziale, frutto di una combinazione fra gli strumenti citati, una misurata dotazione elettronica e i rumori casuali di cui si diceva, apprezzabile in particolare nel paio di episodi strumentali, “iii” e “w sunset boulevard”.
Completano il quadro i contributi degli ospiti: la cantautrice di Chicago Lala Lala in “please 5 more minutes” (“Non voglio essere felice, voglio essere affamata, a bocca aperta, impreparata”, confida il testo) e il chitarrista Meg Duffy degli Hand Habits in “ily2”, bozzetto di folk futurista posto all’epilogo: “Sono facile da convincere, è facile ingannarmi, non è necessario che sia vero, dillo come se lo pensassi, come una cosa qualsiasi, ci crederò e dirò: ‘Anch'io ti amo’”.