Il fragile incantesimo dei Beach House
Diviso in quattro atti, Once Twice Melody è l’ambizioso album nuovo del duo dream pop Beach House
Creature dall’indole appartata, Victoria Legrand e Alex Scally escono saltuariamente dalla Beach House edificata 18 anni fa a Baltimora. Accade quando hanno musica nuova da far ascoltare, moltissima nell’occasione: talmente tanta – 18 brani per un totale di 84 minuti – da averli indotti a pubblicarla in quattro lotti separati, resi disponibili con cadenza mensile da novembre a oggi.
A introdurre il primo era la canzone dalla quale prende titolo l’intera opera: numero pop d’alta scuola, la cui consistenza vaporosa – unita allo spleen sottile che la pervade: “Belle de jour davanti a me, non importa dove vai, la tua ombra ci sarà sempre”, recitano i versi a un certo punto – evoca il ricordo del safari sulla Luna degli Air a fine Novecento e forse – chissà – addirittura Gainsbourg (la protagonista Melody è omonima alla Nelson della famosa Histoire). Dettagli che ci rammentano l’origine francese della cantante, nipote del compositore parigino Michel Legrand, asso da colonne sonore del quale si potrebbe cogliere l’eco in “Modern Love Stories”, epilogo dal sapore cinematografico.
Si tratta di uno degli episodi dov’è più evidente l’impiego degli archi, orchestrati dal veterano canadese David Campbell, notato spesso al fianco del figlio Beck: assoluta novità che si appaia alla produzione firmata dal duo, mai in passato responsabile esclusivo di quel compito. Altre sfumature degne di nota sono l’uso esteso di un batterista in carne e ossa (James Barone, già con loro dal vivo e nel precedente 7) e una maggiore varietà in fatto di chitarre, dalla slide utilizzata in “The Bells” (seconda traccia del quarto atto) all’acustica che conferisce connotati quasi folk a “Sunset”, ballata dai toni fiabeschi posta in apertura della terza sezione: “Zucchero sulle palpebre, il cosmo come velo, sta scendendo dal palazzo”. Immagini replicate poco più avanti in “Masquerade” (“Viene vestita da domenica, filo di perle intorno al collo, camera di specchi, giorni di pizzo”), dove però il suono tende a una cupezza da Depeche Mode, che contrasta la chiusura a ritmo di valzer dell’antecedente “Another Go Round”.
Il ventaglio delle possibilità si è dunque ampliato rispetto al canone iniziale, definito da alcuni dream pop e da altri considerato variante a bassa gravità dello shoegaze: formula culminata nel 2010 in Teen Dream, disco che tramutò i Beach House da oggetto di culto in prodotto di successo, come dimostrato in seguito dai campionamenti di spezzoni del repertorio da parte dei pesi massimi della black music Kendrick Lamar e The Weeknd.
L’ambizioso album in questione, ottavo della serie, sembra voler certificare – anche in termini di stazza – tale processo di crescita, benché – interpellata da “Pitchfork” – Victoria abbia detto: «Siamo ragazzini che fingono di essere cresciuti». Ciò a tratti sfocia in una grandeur prossima alla dismisura di artisti tipo M83 o Tame Impala, mentre il fascino enigmatico della coppia derivava anzitutto dal suo modo di suscitare nell’ascoltatore una sensazione d’intimità “da cameretta”: capita ad esempio in testa al secondo blocco con “Runaway”.
“Costruiamo montagne dal nulla”, affermò tempo fa Legrand, provando a rendere metaforicamente il senso del proprio lavoro e svelandone così la fragile natura d’incantesimo, che in Once Twice Melody viene messa alla prova dalla vastità del programma. Possibile ne siano consapevoli, se valgono le parole melodrammatiche di “Pink Funeral”, epitaffio di un amore: “Una volta era una fiaba, poi tutto è andato a rotoli, cigni su un lago stellato, cuori fatti per rompersi. lacrime attraverso un velo di pizzo bianco, funerale rosa”.