Il folk del nostro tempo di Laura Veirs
The Lookout segna il ritorno della cantautrice statunitense Laura Veirs, con Sufjan Stevens fra gli ospiti
In attività da quasi due decenni e artefice – questo incluso – di dieci album, la quarantaquattrenne cantautrice statunitense Laura Veirs è figura meno appariscente di altre colleghe. A maggior ragione considerando che – fatta eccezione per il lavoro confezionato nel 2016 in trio con K.D. Lang e Neko Case – non se ne avevano notizie discografiche dal 2013, quando uscì cioè il precedente Warp and Weft.
Era dunque fuori dai radar e certo The Lookout – sommesso com’è nei toni – non sembra voler reclamare chissà quale attenzione. Eppure, prestandogliela, non si può far altro che ammirare il garbo della scrittura e dell’esecuzione, apprezzando d’altra parte la sottigliezza della narrazione.
Laura Veirs stessa, presentandolo, afferma di essere stata influenzata dagli avvenimenti recenti, in particolare dal “caos dopo le elezioni americane”. L’eco dell’attualità è appena accennata, tuttavia: nell’intestazione di “When It Grows Darkest”, dove l’incupimento del contesto è reso dall’inquietudine degli archi, oppure nei versi iniziali del brano che dà titolo alla raccolta, “Non capisco quelle persone, non percepisco i loro sguardi”.
C’è piuttosto l’intenzione di cercare rimedio e conforto, badando alle cose care (lookout vuol dire quello), regalandosi parentesi di quiete in ambienti ospitali (le cascate di Colorado Springs o un prato accogliente, rispettivamente in "Seven Falls" e "The Meadow": “Niente paura, niente confusione”, benché “sapessimo che non sarebbe durato, era meraviglioso”) e dando corpo alla fiducia (l’epilogo celebra "Zozobra", il gigantesco fantoccio bruciato al culmine della Fiestas de Santa Fe, in New Mexico: “Le speranze della gente salivano insieme al fuoco”).
Laura Veirs comunica così empatia, anche nei momenti in cui rievoca chi è scomparso (un’amica “ora sposata al mare” in "Margaret Sands", che cita T.S. Eliot da La terra desolata, e persino David Bowie, attraverso la “torre di controllo” di Space Oddity in "Heavy Petals"), aiutata in questo dall’opera preziosa del produttore (e suo compagno) Tucker Martine, che imbastisce la trama sonora dell’album con elegante sapienza artigianale, alternando trasparenze ("Watch Fire", dove compare in voce Sufjan Stevens, restituendo il favore fattogli dalla protagonista nel suo capolavoro Carrie and Lowell) e ombrosità (la versione di "Mountains of The Moon" dei Grateful Dead). È musica folk del nostro tempo.