I Low saranno la prossima Tradizione Americana
Double Negative, il nuovo album dei Low, è un capolavoro spiazzante che aggiorna il suono del gruppo e lo proietta tra i futuri classici
È piuttosto raro che degli artisti in attività da lungo tempo – un quarto di secolo in questo caso – abbiano ancora la forza mentale e l’audacia per mettersi in discussione, sperimentando formule mai tentate in precedenza. Accade nel “doppio negativo” impresso su disco, dodicesimo della serie, dagli statunitensi Low, e ciò sarebbe in sé già titolo di merito.
Poggiando sulle solide fondamenta costituite da Alan Sparhawk e Mimi Parker (ambedue in voce, il primo chitarrista e la seconda batterista, mentre terzo incomodo attuale è il bassista Steve Garrington, in organico dal 2010), coppia nella vita oltre che in musica, hanno saputo far evolvere la propria cifra espressiva senza perdere identità: dalla lentezza esasperata e minimalista degli esordi (il cosiddetto “slowcore”, definizione per altro ripudiata dagli interessati: sorta di antitesi alla veemenza grunge da metà anni Novanta) si sono spostati progressivamente verso un’idea di suono allineata alla migliore contemporaneità. In questa occasione, a segnare un cambio di passo non è tanto l’entità della componente elettronica, via via sempre più presente nei loro lavori, né l’ipnotica insistenza dei ronzanti bordoni elettrici, caratteristica anch’essa ricorrente in passato, quanto il peso specifico assunto da quei fattori nell’architettura musicale. In certi casi le canzoni sembrano castagne racchiuse dentro ricci: occorre dunque pazienza per afferrarle. Ascoltando ad esempio “Tempest”, strutturalmente una ballata elegiaca, si pensa d’istinto a un difetto dell’impianto hi-fi, tale è il grado di distorsione: accertato che così non è, si ha la sensazione di avere di fronte una specie di folk “post umano”. Almeno altrettanto impressionante è il brano iniziale, ”Quorum”, dove una toccante melodia aliena si fa strada a fatica in mezzo a un flusso d’interferenze.
E poi arriva il groove cupo e ossessivo di “Dancing and Blood”, cui fanno da contrasto la struggente voce di Mimi e il dolente arpeggio di Alan.
Lo spostamento d’asse rispetto all’antecedente Ones and Sixes, a sua volta pervaso da inquietudini simili, si deve al ruolo del produttore P.J. Burton, ai controlli nell’album di tre anni fa, ora coinvolto direttamente nel processo creativo. Lo si percepisce nell’eco di altre sue collaborazioni, da Bon Iver a James Blake, che riverbera qui in alcuni episodi, dallo spleen ambient di “Fly” all’ipnotica litania digitale di “Poor Sucker”.
Testimonia quali risultati possa generare l’alchimia fra loro “Disarray”, in chiusura di sequenza: a una cruda pulsazione meccanica corrisponde un’alata polifonia degna dei Fleet Foxes (“Prima che vada tutto a rotoli, dovrai imparare a vivere in maniera differente”, recita un verso con tono oracolare).
I Low riescono a proiettare in questo modo la tradizione americana del Novecento (in fondo arrivano da Duluth, città natale di Bob Dylan) su schermi a cristalli liquidi, conservandone l’essenza in forme avveniristiche. E tra le righe, nella diafana “Dancing and Fire”, unica eccezione acustica in repertorio, alludono all’inquietante stato delle cose: “Non è la fine, è solo la fine della speranza”.