Holly Herndon verso l'umanesimo digitale
Il nuovo album della statunitense Holly Herndon, Proto, è frutto dell’interazione fra esseri umani e intelligenza artificiale
La vulgata relativa agli effetti esiziali dell’automazione si è diffusa a macchia d’olio in epoca recente, divenendo quasi senso comune. Ma se così non fosse? Fornisce a riguardo un punto di vista stuzzicante Holly Herndon: «C’è una narrazione pervasiva a proposito della tecnologia come agente disumanizzante e noi vogliamo dimostrare il contrario», ha dichiarato presentando il suo nuovo lavoro.
«C’è una narrazione pervasiva a proposito della tecnologia come agente disumanizzante e noi vogliamo dimostrare il contrario».
Laureata in Musica Elettronica e Strumenti di Registrazione al Mills College di Oakland, con successivo dottorato di ricerca in Composizione presso il Center for Computer Research in Music and Acoustics di Stanford, la trentottenne artista statunitense aveva esplorato nei dischi precedenti le potenzialità creative del laptop (Movement, 2012) e il nodo problematico della sorveglianza digitale (l’acclamato Platform, 2015).
Questa volta si spinge però molto più in là: alla realizzazione di Proto ha contribuito infatti in maniera determinante Spawn (letteralmente: “prole”): prototipo d’intelligenza artificiale congegnato insieme al consueto partner Mathew Dryhurst e alla programmatrice Jules LaPlace. Il ruolo assegnatogli, tuttavia, non è sostitutivo del fattore umano, anzi: sottoposto a un processo di apprendimento, il software ha imparato a riconoscere, interpretare e rielaborare le voci, unendosi infine a esse (“È così che ci si sente a essere il primo della propria specie?”, s’interroga la “creatura” nello spoken word di “Extreme Love”).
Lo testimoniano i due episodi che documentano le “lezioni” impartitegli: “Canaan” ed “Evening Shades”. Riconnettendosi all’esperienza di canto ecclesiastico vissuta nell’infanzia, riferita in particolare alla tradizione corale dell’Arca Sacra, tipica del New England, Herndon l’ha impiegata quale base di partenza per questo ambizioso esperimento. Il risultato è notevolissimo, e non solo per la forza concettuale da cui trae alimento.
In alcuni brani si percepisce ciò che la musica pop potrebbe diventare: ad esempio in “Frontier”, dove sembra di ascoltare le polifonie arcaiche delle Voix Bulgares mescolate con il gotico elettronico degli svedesi The Knife, mentre su “Bridge” aleggia l’ombra astratta di Laurie Anderson.
Oppure, all’epilogo, nello struggente madrigale avveniristico intitolato “Last Gasp”. Appena prima, Spawn si era misurato con le arzigogolate strutture footwork architettate da Jlin, ricavandone l’enigmatica “Godmother”.
Delle 13 tracce, comunque, colpisce maggiormente l’epica e solenne “Eternal”, alla fin fine una canzone sentimentale: “È tutta colpa mia, provo amore per te, voglio vederti intorno, respirare, appartenere, respira per favore, tutti i miei sogni ti appartengono”.
Che non si possa dire con certezza se la voce chiamata a pronunciare quelle parole sia umana o artificiale è in sé un piccolo miracolo.