The Good, The Bad & The Queen, viaggio nell'Inghilterra della Brexit
Una nazione sull'orlo di una crisi di nervi in Merrie Land, il nuovo album (dopo 11 anni) del supergruppo guidato da Damon Albarn
Il secondo disco di The Good, The Bad & The Queen, Merrie Land, in uscita il 16 novembre.
In perfetta – ancorché incidentale – sincronia con le caotiche convulsioni politiche del Regno Unito sulla via della Brexit ascoltiamo un disco ispirato appunto al divorzio britannico dall’Unione Europea. Si tratta del secondo lavoro realizzato da The Good, The Bad & The Queen, supergruppo creato dal proteiforme Damon Albarn insieme al nigeriano Tony Allen, già propulsore dell’afrobeat, all’ex bassista dei Clash Paul Simonon e al chitarrista Simon Tong, un tempo nei Verve, distante quasi 12 anni dall’unico predecessore (The Good, the Bad & the Queen, 2007)
Se allora i quattro celebravano l’amore per Londra, adesso dipingono il ritratto di un paese sull’orlo di una crisi di nervi: la “piccola isola indisponente” di cui ha parlato in un’intervista a The Guardian l’uomo implicato altresì nei Blur e nei Gorillaz. Fra i tanti artisti firmatari dell’appello recapitato il mese scorso alla premier Theresa May per scongiurare il pericolo che la musica nazionale finisca dentro una «una cella culturale autocostruita», Damon Albarn diviene qui principale estensore di – parole sue – «una riluttante lettera d’addio all’Europa». Figura simbolica della narrazione è, in copertina, il ventriloquo interpretato da Michael Redgrave nel cortometraggio conclusivo del film a episodi Dead of Night, da noi Incubi notturni, posseduto dal proprio pupazzo. Metafora che informa anche il video di “Gun to the Head”, soffice ballata folk dal tono prossimo al vaudeville.
In sequenza, quel brano arriva dopo la canzone – malinconica, a dispetto del cantilenare da filastrocca – che dà titolo all’album e lo apre, preceduta da un’introduzione a effetto con la recitazione in stile cinegiornale di un passo da I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer.
Benvenuti dunque nella “terra dell’allegria”, che tutto è fuorché allegra. Albarn non attacca quanti hanno votato a favore della separazione, semmai descrive il contesto dal quale la scelta è dipesa: i “curati campi d’Inghilterra, barricati negli anni Cinquanta”, stando a un verso di “The Last Man to Leave”. Una nazione tuttora ancorata alla nostalgia del lontano passato imperiale, incapace di proiettare la sua identità nel futuro, se non in negativo, ed è probabile perciò che la decisione di registrare il materiale a Blackpool – cittadina costiera del nord, affacciata sul mare d’Irlanda, dove il “leave” ha conquistato oltre il 67% di consensi – non sia stata affatto casuale: una sorta di “dovere di cronaca”.
L’arredo musicale, prodotto dal veterano Tony Visconti utilizzando con parsimonia archi e fiati di complemento, è garbato e mai sopra le righe: si ascolti “Ribbons”, imperniata su voce e chitarra acustica, ad esempio, oppure la dolente “Lady Boston”, che diventa solenne all’ingresso di un coro maschile del Galles, mentre altrove si apprezzano le qualità degli strumentisti titolari, dalle intricate strutture ritmiche architettate dal 78enne Allen in “Nineteen Seventeen” alla tipica linea di basso dub scandita da Simonon in “The Truce of Twilight”, simile a una rievocazione degli Specials di “Ghost Town”.
In termini strettamente artistici Merrie Land non è un’opera straordinaria, ma la tempestività da instant record con cui interviene nell’attualità gli conferisce valori d’altro genere. E comunque, in coda, avvolta in un’atmosfera da luna park all’ora di chiusura, “The Poison Tree” si eleva a elegia da lacrimuccia per le cose perdute: “È davvero triste che tu mi stia lasciando”, dice – per bocca di Albarn – l’Unione Europea al Regno Unito, come un’innamorata delusa.