Goat Girl, post punk post Brexit
Il sorprendente album d'esordio delle giovanissime londinesi Goat Girl
Coincidenza curiosa: nel giorno in cui il Regno Unito votava per Brexit, la band londinese Goat Girl firmava l’accordo con Rough Trade, da quattro decenni esatti fulcro discografico nella scena indipendente d’oltremanica.
Frutto di quel contratto è ora il primo album realizzato dal quartetto, che nel giro di un paio d’anni, a forza di concerti, ha conquistato una reputazione considerevole, affermandosi nel microcosmo che gravita intorno al Windmill di Brixton, pub divenuto epicentro delle sottoculture “fai-da-te” nella capitale britannica. Ecco allora 14 canzoni – e cinque interludi – nell’arco di una quarantina di minuti, ascoltando le quali si è colpiti anzitutto dalla complessità della scrittura, sorprendente trattandosi di ventenni. Il canone è d’impronta post punk, sviluppato collegando i puntini che uniscono i modelli originari di natura femminile (Slits e Raincoats, queste ultime rievocate nell’utilizzo del violino) ad altri anagraficamente recenti (le Savages, negli impeti d’elettricità). Il tracciato risultante ha così un profilo insolito, evidente negli episodi migliori della raccolta: da “Creep”, ballata crepuscolare che racconta una storia di molestie in treno, all’ombrosa ma energica “The Man”, sul rapporto contrastato con l’altro sesso (“Vedo i tuoi occhi che guardano le mie cosce”).
Fatta eccezione per l’andamento disinvolto di “Cracker Drool”, massima concessione “pop” dell’intera sequenza, la grafia non è mai lineare: badando al passo claudicante di “Viper Fish” o all’angolosità malevola di “Country Sleaze”, si capisce perché avesse un debole per loro la buonanima di Mark E. Smith, che le volle di spalla in occasione dell’ultima apparizione dei Fall a Londra, nel luglio dello scorso anno, al leggendario 100 Club.
Le Goat Girl sembrano dotate di humour quasi altrettanto caustico: “Se mi lanci un osso, ti tirerò dietro una pietra acuminata”, cantano in “Throw Me a Bone”, la cui torbida cupezza potrebbe ricordare l’esordiente PJ Harvey. Lo conferma la scelta di concludere il disco – in sé notevolissimo – con l’improbabile cover di “Tomorrow”, brano tratto dalla commedia musicale Bugsy Malone (da noi al cinema nel 1976 come Piccoli gangster), qui tramutato in valzer a tinte spettrali.