Fontaines D.C. e la dannazione del cervo
Tornano con Skinty Fia i Fontaines D.C., miglior “gruppo con chitarre” in circolazione nelle isole britanniche
Skinty Fia, imprecazione irlandese traducibile più o meno con “che il cervo sia dannato”, è il titolo del terzo album del gruppo originario di Dublino Fontaines D.C. Ci siamo occupati dei loro primi due dischi, Dogrel e A Hero’s Death, e proseguiamo con la tradizione: Skinty Fia segna un’evoluzione importante dell’identità del gruppo perché nel frattempo quattro elementi su cinque si sono trasferiti a Londra e quindi l’album parla dell’Irlanda vista da una prospettiva diversa.
“Che il cervo sia dannato” era un’imprecazione dettata dall’esasperazione usata da una prozia del batterista Tom Coll. Grian Chatten, il cantante, ha descritto l’espressione come qualcosa che suona come «mutazione e condanna e inevitabilità, e tutte queste cose che ho sentito erano compatibili con la mia idea di irlandesità all’estero». In un’intervista concessa a Rolling Stone ancora Chatten ha affermato che l’ispirazione per il disco è stata «in larga parte plasmata e influenzata dall’irlandesità esistente in Inghilterra, cambiata e divenuta un nuovo tipo di cultura».
Voglia di gaelico? Ci pensa subito il brano d’apertura, “In ár gCroíthe go deo” (permettetemi di rinnovare la mia stima nei confronti di Larry Tesler, inventore del copy and paste, altrimenti non sarei mai riuscito a scrivere questo titolo), il cui tono epico dà l’impronta ai restanti nove brani.
Il loro “approccio fragile alla bellezza” – definizione della rivista Mojo – è piuttosto evidente in questa canzone e il bassista Conor Deegan III ha spiegato che questo brano è molto strano da suonare: «Stavamo veramente ridendo mentre lo scrivevamo. Eravamo Conor Curley, il chitarrista, e io a cantare questa scala minore armonica, un po’ nello stile dei Chorboys però in irlandese. Quando entra la batteria, c’è un momento di speranza ed elevazione. In definitiva è una canzone su una donna a cui non fu permesso mettere la frase “In ár gCroíthe go deo” sulla sua pietra tombale in Inghilterra perché il consiglio comunale giudicò la scritta in lingua irlandese un gesto politico».
I mesi che hanno preceduto la pubblicazione di Skinty Fia hanno visto l’uscita di alcuni singoli, puntualmente inseriti nell’album e divenuti già dei cavalli di battaglia nelle recenti esibizioni dal vivo del gruppo. Uno tra questi è senz’altro “Jackie down the Line”, con quella chitarra che ci riporta alla memoria quella di Johnny “Fucking” Marr al tempo degli Smiths.
Stesso discorso per “I Love You”, descritta da Chatten come la prima canzone apertamente politica scritta dal gruppo e presentata anche nel concerto che il gruppo ha tenuto il mese scorso all’Alcatraz di Milano.
Tra i brani inediti le mie preferenze vanno all’accoppiata formata da “Bloomsday” – ancora una volta un’ode all’Irlanda, che qui prende il nome dal giorno dedicato a James Joyce, un ritratto agrodolce di quel periodo della vita in cui l’amore per la città in cui sei cresciuto comincia a diminuire e la necessità di andartene diviene prevalente, con una chitarra cinematografica dal suono un po’ americano – e “Roman Holiday” – divisa tra l’eccitazione causata dalla vita londinese e la denuncia dell’insopportabile snobismo inglese, dove il suono torna al post-punk dei primi due album e la chitarra… beh, a me ricorda quella di Will Sergeant di Echo & The Bunnymen -.
«Baby, come on, before the going gets gone / Heard you lied to the Major, won't be long / Well, I wish upon a wedding for a picture in the star / When they knock for ya don't forget who you are / Skinty Fia» - "Roman Holiday"
Se paragonato ai due che l’hanno preceduto, Skinty Fia risulta essere un disco più misurato e riflessivo, le chitarre non sono più pugni in faccia ma suonano ricche di echi e cavernose, addirittura shoegaze in “Nabokov” che ha il compito di chiudere la raccolta in maniera turbolenta. Una canzone in particolare si distacca da quanto fatto in precedenza dal gruppo e mi riferisco a “The Couple Across the Way”, unica sopravvissuta di un progetto, poi abbandonato, di registrare un album doppio, di cui metà dedicato a canzoni ispirate dalla tradizione irlandese: senz’altro uno degli episodi più commoventi del disco, grazie anche a un sapiente uso della fisarmonica.
Tutto bene quindi? Non proprio: rimane un po’ di nostalgia per i ritmi degli inizi, quelli che sembravano fatti apposta per il pogo, sostituiti da muri di chitarre che a lungo andare suonano statici e un po’ monotoni, e lo stesso discorso si potrebbe fare per le parti vocali, non propriamente trascinanti.
Probabilmente i Fontaines D.C. non hanno ancora prodotto il loro disco migliore: io aspetto fiducioso, prima o poi ci riusciranno, e nel frattempo Skinty Fia li conferma comunque come il miglior “gruppo con chitarre” in circolazione nelle isole britanniche.
P.S. I Fontaines D.C. torneranno a breve in Italia per tre date:
7 giugno – Arena Puccini, Bologna
8 giugno – UNALTROFESTIVAL, Milano
16 agosto – Parco della Musica, Padova