Feist contiene moltitudini

Nel nuovo album Multitudes la cantautrice canadese Feist espone se stessa senza riserve

FEist multitudes
Disco
pop
Feist
Multitudes
Polydor
2023

Nel sesto album intestato al suo cognome, Multitudes, distante sei anni dal precedente Pleasure, la 47enne cantautrice canadese Leslie Feist dichiara – dal titolo alla copertina – di contenere moltitudini, direbbe Walt Whitman.

Ciò ha a che fare, immaginiamo, con i fattori emotivi da cui il disco è stato influenzato: la morte del padre e la nascita della figlia adottiva. «Scrivere canzoni sembrava al tempo stesso superfluo e necessario», ha confessato al magazine britannico “Uncut”, motivandone la genesi. Le ha registrate in California al termine di un rodaggio dal vivo compiuto fra il 2021 e il 2022 in una serie residenze teatrali ad Amburgo, Toronto, Denver, Seattle e Stanford: «Le canzoni erano nuove, la scomparsa di mio padre era nuova, il ruolo di madre era ancora nuovo, dovevo capire come mostrarmi per tutti quei volti diversi che dovevo indossare», ha spiegato a “The Guardian”.

Il risultato è una dozzina di brani dal tono generalmente intimista, benché l’ouverture non lo sia affatto: “In Lightning” ha cadenza e slancio affini a certi slanci mélo tipici di Kate Bush.

Recita il testo: “Per essere Dio come dico io, allora appartengo al fulmine come l’elettricità e se sono spaventata è solo per il potere che mi è stato conferito”. Allude verosimilmente alla maternità: condizione posta al centro della successiva “Forever Before”, ballata rarefatta ed estesa (la più lunga traccia in sequenza, valicando la soglia dei cinque minuti) con leggerezza da ninna nanna, tanto che l’ultima frase dice: “Lei sta dormendo proprio lì”.

Evoca viceversa un senso di perdita – “Alcune persone se ne sono andate e quelle rimaste alla fine se ne andranno in capo a qualche giorno” – “Become the Earth”, sorretta da un arpeggio sommesso e cullata da fremiti d’archi, con la voce in principio fragile e poi moltiplicata artificialmente (a proposito di “moltitudini”…).

Il trucco della polifonia individuale è ricorrente, del resto: durante la suggestiva filastrocca “Calling All the Gods”, nella pacata narrazione di “Of Womankind”, in “The Redwing” (con effetto Joni Mitchell quando descrive l’“inverno californiano”) e nell’incanto acustico di “Hiding Out in the Open”, segnato da una rassegnazione malinconica (“Nulla ci renderà nuovi, ciò che è fatto non si può cancellare”).

Nella costruzione sonora è minimo l’impiego dei marchingegni elettronici (oltre all’episodio d’apertura, caratterizzano “I Took All of My Rings Off”), sottomessi alla strumentazione tradizionale (il flauto che indirizza verso il folk la melodia ispirata di “Martyr Moves”, oppure il violino d’antan in “Song for Sad Friends”) e a scelte di arrangiamento che rimandano a epoche lontane, tipo la mistica freak di Laurel Canyon nel sentimentalismo confidenziale di “Love Who We Are Meant To” (morale: “Ecco lo svantaggio del romanticismo, non riuscire a volte ad amare chi siamo destinati ad amare”).

Dopo l’eccezione iniziale, la sensazione di quiete viene profanata soltanto da “Borrow Time”, l’ampiezza orchestrale e il pathos emotivo della quale finiscono per richiamare alla memoria le cose migliori dei Broken Social Scene, collettivo indie rock cui via via lei ha contribuito in misura inversamente proporzionale agli impegni da solista.

Diva alternativa dai tempi di The Reminder (2007), in Multitudes Feist si dedica anzitutto all’esplorazione di sé stessa e consegna all’ascoltatore un resoconto schietto dei suoi mutevoli stati d’animo.

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