Deerhoof, una montagna d’idee
Attivismo ai temi di Trump: l’esempio dei californiani Deerhoof nel nuovo disco Mountain Moves
Perdonate il ritardo: il disco dei Deerhoof non è affatto nuovo. Nel vortice delle uscite, qualcosa sfugge. L’avevo scaricato a fine agosto (!) da Bandcamp, dov’era in vendita nella formula “paga quanto vuoi”. Tecnicamente, nel senso del prodotto fisico, è uscito poi a inizio settembre. L’ho ritrovato per caso giorni fa, spulciando la cartella “arretrati” sul desktop del computer, e finalmente mi ci sono dedicato, scoprendone ammirato le qualità: non un capolavoro, sia chiaro, ma senz’altro uno tra gli ascolti più stuzzicanti fatti di recente.
Gli autori non sono esattamente delle star: un egregio pedigree indipendente ingarbugliato dal dispettoso eclettismo che nell’arco di quattordici album li ha condotti dal rumorismo punk degli esordi di vent'anni fa verso approdi inimmaginabili, fra la psichedelia caleidoscopica dei Flaming Lips e il pop “space age” degli Stereolab. A proposito di questi ultimi, Laetitia Sadier – che ne era voce femminile – compare qui in uno degli episodi migliori: “Come Down Here and Say That”, ballata al sapore di “exotica”.
Di ospiti, d’altra parte, Mountain Moves è pieno: a rendere aggraziato il post punk stile Pixies dell’iniziale “Slow Motion Detonation” è l’argentina Juana Molina, ad esempio, mentre le asperità jazz del brano che dà titolo alla raccolta dipendono dal sax di Matana Roberts e del rap scandito in “Your Dystopic Creation Doesn't Fear You” è responsabile l’estrosa tuttofare newyorkese Awkwafina.
E poi ci sono le cover, che fanno storia a sé. “Freedom Highway” degli Staple Singers – un classico nell’era dei diritti civili – scorre come un rock’n’roll vecchia maniera. “Small Axe” di Bob Marley è tramutato –all’epilogo – in un haiku per pianoforte e voce (quella della cantante e bassista di origine giapponese Satomi Matsuzaki, che insieme al batterista Greg Saunier costituisce la coppia motrice della band). In fatto di trasfigurazione, comunque, è imbattibile il modo in cui “Gracias a la Vida” di Violeta Parra viene rivestita di astratte sembianze ambient (con tanto di canto lirico sullo sfondo). Un tris di canzoni che simboleggia l’attitudine politica dell’opera: “un disco di protesta”, nelle intenzioni del quartetto di San Francisco.
Attivismo al tempo di Trump, detto in due parole: lo dimostra la scelta di destinare l’intero profitto ricavato dai download digitali alla neonata associazione Emergent Fund, scopo della quale è sostenere le comunità discriminate per ragioni razziali, etniche, religiose e sessuali. Deliziosa musica di opposizione, insomma.