Colin Stetson nel nome del padre
Il nuovo lavoro del sassofonista statunitense, When We Were That What Wept for the Sea, è un epitaffio in musica
È un’opera fuori programma, When We Were That What Wept for the Sea di Colin Stetson. Negli ultimi tempi il 47enne sassofonista statunitense – domiciliato tuttavia in Canada da anni – si era dedicato principalmente alle musiche per il cinema, creando le colonne sonore per Color Out of Space (2020), l’ennesimo sequel di Texas Chainsaw Massacre e The Menu (entrambi 2022), dopo aver contribuito al successo di Hereditary (2018), lungometraggio di debutto del geniale e controverso Ari Aster.
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Reduce da un album austero e cupo come il recente Chimæra I, nell’occasione cambia rotta sull’onda emotiva suscitata dalla scomparsa del padre. «Sono piuttosto metodico e ho sempre una serie di cose su cui lavorare seguendo un ordine prestabilito. Questa invece era inaspettata. A volte nella vita accadono eventi che non si possono pianificare. Così ho interrotto tutto il resto e ho composto questo disco», ha dichiarato a “The Quietus”, aggiungendo che contiene «una certa tristezza, ma anche una specie di giocosità: è un po' una favola».
Ciò lo ha indotto inoltre a infrangere il precetto di avvalersi esclusivamente di registrazioni in presa diretta, cosicché alcune tracce sono state prodotte impiegando sovraincisioni e incorporano – ulteriore novità – altri strumenti. In “The Lighthouse II”, ad esempio, si ascolta una solenne corale di cornamuse, suonate dalla scozzese Brighde Chaimbeul.
Si tratta del secondo episodio dei cinque che costituiscono una sorta di filo conduttore durante questa settantina di minuti, occupando quasi un terzo della durata complessiva. Nel successivo “The Lightouse III” affiora la voce dell’irlandese Iarla O’Lionaird, che adagiata su mesti accordi di pianoforte intona un’elegia nell’arcaico stile gaelico detto sean-nós. I due artisti citati ricompaiono poi, insieme al violinista Matt Combs e al chitarrista Toby Summerfield, nel conclusivo “The Lighthouse V”, il cui sviluppo orchestrale è preceduto da un recitato che fornisce indizi sull’intenzione narrativa: “Di tutti i giorni, questi brillano come lucciole nel buio, luce di faro attraverso la nebbia, fiori del deserto che sbocciano come un’oasi disperata”.
Ovviamente domina comunque la scena il sassofono, al solito incrementato da multifonie e microfonatura del corpo di Stetson: ciò che lo rende one-man-band di formidabile efficacia, come sa bene chi ha avuto modo di ammirarlo dal vivo.
Qui se ne apprezza l’effetto in particolare nel brano che dà titolo al lavoro, animato da un incalzante fraseggio di scuola minimalista, e nel flusso vorticoso di “Long Before the Sky Would Open”, dove risalta il rapporto simbiotico fra l’uomo e lo strumento, amplificato dalla tecnica di respirazione circolare.
Alternando i registri, dal tono angelicale di “The Surface and the Light” al vigore abrasivo di “Behind the Sky”, Colin Stetson disegna in When We Were That What Wept for the Sea un mosaico musicale nel quale all’urgenza del movente affettivo corrisponde una straordinaria padronanza del mezzo espressivo.