Carlo Aonzo, il mandolino oltre i cliché
Mandolitaly del Carlo Aonzo Trio mette insieme un parterre di ospiti, per raccontare le infinite potenzialità del mandolino italiano
Mutatis mutandis, si potrebbe affermare con assoluta tranquillità che oggi, sulla scena mandolinistica internazionale, Carlo Aonzo sta facendo per il mandolino quanto Béla Fleck ha fatto e sta facendo per il banjo. In entrambi i casi si tratta di compiere un'operazione di quelle che Albert Einstein definiva «più problematiche che rompere l'atomo»: e cioè rompere un pregiudizio. Come Fleck ha mostrato che il metallico e crepitante suono del banjo non significa solo richiami demodé alla old time music, al bluegrass e a certi lontani ricordi evaporati di jazz primigenio, così Aonzo ha combattuto e combatte una battaglia in prima linea per mostrare che lo strumentino a corde diffuso in tutto il pianeta nelle fogge più diverse non solo è radicato, ma perfettamente in grado di affrontare qualsiasi genere musicale.
Sì, perché comunque resta il pregiudizio del pizzico sentimentale e anche in questo caso demodé, una specie d’ircocervo che mette assieme la regina Margherita mandolinista e, di nuovo, il bluegrass. Con qualche rara occasione, al massimo, da posizionare in casa country rock. Tenuto conto che già in passato Aonzo ha spaziato con classe elegante fra musiche classiche, bluegrass, rock e canzone d'autore, questo notevolissimo Mandolitaly potrebbe essere la chiava, diretta e senza fronzoli, e con un titolo che chiunque può capire, nel facile gioco di parole, per mostrare che il mandolino non è solo sentimentalismo e svolazzi decorativi, e che il confronto con gli altri strumenti è alla pari.
Per cui segnaleremo subito l’impressionante (e spesso sorprendente) parterre di ospiti scelti uno a uno da Aonzo per questo disco, da affiancare a Lorenzo Piccone e Luciano Puppo del suo Trio: Claudio Bellato alla chitarra, Tommaso Bellomare allo scacciapensieri, Rodolfo Cervetto alla batteria, Antonio Marangolo al sax tenore, Ismaila Mbaye alle percussioni africane, Fabio Rinaudo ai flauti e alle cornamuse, Daniele Sepe al sax soprano, Ike Stubblefield all'organo hammond, Riccardo Tesi all'organetto diatonico, Riccardo Zegna al pianoforte. Gente eccellente, e che arriva da almeno sette mondi musicali ed estetici diversi.
Troverete "Giant Steps" di John Coltrane, con i suoi micidiali salti di terze in rotazione continua affiancata a una tarantella, una "Trinacria Suite", la "Toccata in La Maggiore" di Paradisi che chi ha i capelli imbiancati ricorda come musica degli intervalli televisivi, "Arrivederci Roma" e il "Ma se ghe pensu" genovese di Margutti calcato su un tango preesistente. E il celeberrimo inno di Modugno che identifica la canzone italiana nel mondo apre le danze, e diventa "Nel Blu dipinto di Blues". Una girandola frastornante. Ma il disordine creativo e intelligente, lo sappiamo, smuove cuore e cervello, e innesca ulteriori avventure.