Calexico e Iron & Wine, 14 anni dopo

I Calexico tornano a fare comunella con Iron & Wine in Years to Burn, in attesa del tour italiano in estate

Calexico / Iron & Wine
Disco
pop
Calexico / Iron & Wine
Years to Burn
City Slang
2019

In questo lavoro si riannodano i fili di una relazione artistica cominciata nel 2005, quando l’allora poco più che esordiente Sam Beam (alias Iron & Wine) scelse di registrare sette canzoni insieme agli “antropologi musicali” – parole sue – Joey Burns e John Convertino, coppia motrice dei Calexico: il risultato, un EP intitolato In the Reins, fu accolto in maniera sovente entusiastica (“Straziante e ammaliante”, concluse “Entertainment Weekly”) e diede slancio a una tournée memorabile. Dopo di che, negli anni, i tre si sono scambiati favori, partecipando ai rispettivi dischi e dandosi infine convegno lo scorso dicembre al Sound Emporium di Nashville per realizzare un album intero.

Years to Burn è differente da quell’unico precedente: i protagonisti sono ormai artisti maturi e affermati, avendo dunque stile definito e pieno controllo delle proprie qualità espressive, ma soprattutto – questa volta – l’opera è frutto di maggiore equilibrio sul piano compositivo, benché sia ancora il cantautore del ferro e del vino a prevalere nel complesso.

Inoltre l’arredo sonoro è nella circostanza più ricco, grazie agli interventi di collaboratori di fiducia di Iron & Wine (il pianista Rob Burger e il bassista Sebastian Steinberg) e dei Calexico (il trombettista Jacob Valenzuela e il virtuoso chitarrista pedal steel Paul Niehaus), e all’ascolto sofisticatissimo.

Persino troppo.

Tanto da suscitare a tratti una sensazione di compiacimento manieristico. Ciò accade negli episodi in cui la scrittura non è adeguatamente consistente, ad esempio “Follow the Water”. Altrove l’esito è invece confortante: valga a dimostrarlo il garbato crescendo di “Midnight Sun”.

La tessitura rimanda in genere alla sintassi tipica del country, anche in termini narrativi, fra lo scorrere del tempo e amori che vanno e vengono: dall’iniziale “What Heaven’s Left” alla conclusiva “In Your Own Time”, essendone apice l’intensa “Father Mountain”.

Punto focale della raccolta è tuttavia “The Bitter Suite”, divisa in tre movimenti ed estesa oltre gli otto minuti (un abbondante quarto del totale): il primo – “Pájaro” – d’impronta ispanica, quello centrale – “Evil Eye” – alla deriva sulle tracce di un folk rock visionario che può ricordare i Fleet Foxes, con sbocco languido nel conclusivo “Tennesse Train” e post scriptum – “La vita è agrodolce” – dall’umore esistenzialista. Vale da solo il prezzo del biglietto, come suol dirsi.

Sono già in prevendita, a proposito, quelli dei cinque concerti che la combriccola statunitense terrà in Italia a fine luglio: il 22 a Milano (Giardino della Triennale), il 23 all'Anfiteatro del Vittoriale di Gardone Riviera, il 24 luglio a Villa Ada a Roma, il 25 a Firenze (Cavea del Teatro dell'Opera) e – infine – il 26 a Monfortinjazz, a Monforte d'Alba, nelle Langhe.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

pop

La prima da solista di Kim Deal

Nobody Loves You More è il primo album dell’icona femminile dell’indie rock statunitense

Alberto Campo
pop

L'album di famiglia di Laura Marling

Il nuovo disco della cantautrice inglese Laura Marling nasce dall’esperienza della maternità

Alberto Campo
pop

Godspeed You! Black Emperor: un requiem per Gaza

Il nuovo lavoro della band canadese è ispirato al dramma del popolo palestinese

Alberto Campo