Cabit, il Mediterraneo è un gioco di sponde
Serenin, nuovo album del gruppo ligure, dialoga con la musica del Mar Nero e della penisola anatolica
Ha scritto la grande Judith Schalansky, autrice tra l'altro dell'Inventario di alcune cose perdute, che la storia non si ritrova nel buio d'inchiostro al centro delle pagine. La storia si racconta dal gioco dei margini bianchi, perché sono i margini il vero centro del mondo. Sostituite alla parola “margini” la parola “sponde”, e avrete immediatamente un motivo ragionevole per affermare non tanto che esista una “musica del mediterraneo”, ma, com'è stato detto, una “unità nella diversità” di musiche del mediterraneo in perenne e storico dialogo tra loro.
Le sponde del Mediterraneo sono come quelle di un immenso tavolo da biliardo, che fa cozzare le palle d'avorio e le attrae, le manda in buca e le separa. Rovine improvvise e altrettanto improvvise fortune. Gioia e disperazione. Il Mediterraneo accorpa il diverso perché è esso stesso diversità che trova, sempre e comunque, la chiave giusta per forzare la serratura della comunicazione.
Nel gioco di sponde del Mediterraneo, pagine importanti della storia sono state scritte dal rapporto tra liguri e turchi, nella fattispecie tra i turchi che, della penisola anatolica, abitano lo spazio ampio di territorio che potremmo situare tra Istanbul, chiave d'accesso al Mar Nero, e tutto il bordo via via più occidentale del Mar nero stesso, fino ai confini della Georgia terra di magnifico canto polifonico. Lì c'erano le colonie dei genovesi mercanti, mestatori, guerrieri, mediatori culturali. Lì è quella località che è rimasta nel proverbio e nell'orientamento, perché “non bisogna perdere la Trebisonda”. Cabit, il progetto tra tradizione e innovazione reale voluto da Edmondo Romano e Davide Baglietto, entrambi notevoli fiatisti a proprio agio con un parterre sterminato di attrezzi da insufflare, cerca la propria Trebisonda di rifermento volgendosi verso il Mar Nero.
– Leggi anche: Natale in Liguria con i Cabit
Il germe di questo progetto potremmo forse ritrovarlo in quel Galata dell'Orchestra Bailam del 2013: lì si inseguiva il filo della storia del quartiere genovese di fronte al Corno d'Oro; qui, invece, la rotta è più complessa e decisamente affascinante, nel trovare analogie, punti di contatto, snodi di rapporto tra la terra italiana stretta tra mare e monti, la Liguria, e quella della provincia di Artvin sul Mar Nero, ugualmente caratterizzata da lingue di terra assediate da monti e acqua salata.
A Istanbul Edmondo Romano ha trovato lo spazio fisico per riunire i musicisti coinvolti: otto italiani, lui compreso, sette giovani eccellenti musicisti turchi, guidati dall'intuito e dall'entusiasmo della magnifica Filiz Ilkay Balta, giovane vocalist e suonatrice di tulum, la cornamusa turca. Diverso tempo per studiarsi, scambiarsi le composizioni, imparare l'uno le cose dell'altro, poi provare a restituirsele. Ecco il risultato, in un disco visionario e credibile che parte dalle Quattro Province del nostro Nord e torna con il profumo mediorientale di un altro Nord peninsulare. E viceversa. Con strumenti che cambiano nome ma sono fondamentalmente gli stessi. E con la vertigine ex post nello scoprire che il musicologo turco Gazimihal, morto nel 1961, aveva ritrovato nella danza horon tipica di Artvin, qui testimoniata, influenze “genovesi e francesi”. Tutto torna, nel gioco di sponde, dai “margini della storia”.