Burning Spear, la lancia brucia ancora
Dopo 15 anni No Destroyer segna il ritorno di una delle grandi voce del reggae
No Destroyer ha impiegato 15 anni per vedere la luce; due anni fa Winston Rodney aka Burning Spear, ospite di una trasmissione radiofonica, diede finalmente il segnale tanto atteso, quasi in concomitanza con la pubblicazione del singolo “Mommy”: «Penso che sia arrivato il momento giusto per rendere pubblico l’album e anch’io sono pronto. Il momento può essere quello giusto ma se non sono pronto io, beh, poi non funziona. Sono eccitato per la pubblicazione dell’album e anche per quella di un singolo estratto dall’album, in modo tale che la gente abbia un piccolo assaggio del suono dell’intera raccolta. È un buon album, un album forte che parla di un sacco di cose. Sono pronto!».
Evidentemente non era così pronto perché abbiamo dovuto attendere ancora due anni prima di avere tra le mani No Destroyer, l’album numero 36 (non contando le raccolte) del settantottenne Burning Spear.
Le dicerie su quest’album si sono rincorse sulla rete per alcuni anni, col risultato di creare un palpabile senso di eccitazione tra gli amanti del reggae. Finalmente l’attesa è terminata e non è stata per nulla sprecata.
Fare ciò che crede essere la cosa giusta – e non necessariamente la più redditizia – è sempre stata una sua caratteristica, sin da quando era ancora conosciuto solo come Winston Rodney. È questa la motivazione che ha condotto Burning Spear prima dentro e poi fuori dalla leggendaria etichetta discografica giamaicana Studio One, all’inizio della sua carriera artistica alla fine degli anni Sessanta.
Semplice piastrellista, Rodney arrivò a Kingston dal distretto di St Ann, sulla costa settentrionale della Giamaica rurale, quando aveva vent’anni o poco più, armato di una chitarra acustica e alcuni inni a Rastafari scritti da lui. Benché questa fede fosse presente sull’isola a partire dagli anni Trenta, era ancora ampiamente disprezzata in un Paese a maggioranza anglicana, particolarmente nell’embrionale music business. Coxsone Dodd di Studio One («i migliori musicisti, cantanti, tecnici, erano lì», dice Rodney) era l’unico produttore a Kingston a incoraggiare i Rasta.
Spear ha ricordi confusi di quel periodo: «Hai presente il tuo primo giorno di scuola? Sei timido, non sai bene come comunicare, non hai ancora capito chi può essere tuo amico – beh, andare a Studio One era più o meno così. Sapevo che se non avessi detto qualcosa di sensato mi avrebbero cacciato fuori a calci in culo. Bene, mi faccio coraggio e quando canto la mia prima canzone a Mr Dodd il suono gli piace e se ne esce con «Cazzo! Questa ce la teniamo buona!».
In effetti ascoltate “Door peep shall not enter” e non potrete non essere d’accordo con Clement Seymour “Sir Coxsone” Dodd. Give thanks and praises!
Dodd era un ottimo imprenditore ma una pessima persona: per i due album usciti per l’etichetta Studio One Rodney non ricevette soldi. Disilluso, fece ritorno a St Ann, lontano dunque dal mercato discografico della capitale; sembrava la fine e invece l’incontro con Lawrence Lindo, aka Jack Ruby, si rivelò un nuovo inizio. Con il suo nuovo produttore, attento alle richieste sonore di Burning Spear, ecco realizzarsi quel reggae rurale attraversato dai fiati che guardano ad Addis Abeba e con la voce, quella voce, che trascina gli ascoltatori in un mondo mistico, lontano dalle fatiche quotidiane del lavoro nei campi dall’alba al tramonto, «from nah see to nah see».
Quattro album a metà degli anni Settanta – Marcus Garvey, Man in the Hills, Dry & Heavy e Social Living – resero Spear, ovviamente con Bob Marley, la voce più significativa del reggae di quel periodo. Le sue canzoni non erano tanto un incitamento a combattere Babylon quanto piuttosto la spiegazione del perché farlo fosse una così buona idea; benché la rabbia e l’indignazione avessero il loro spazio, in realtà servivano per esporre le motivazioni per l’orgoglio nero e l’auto-celebrazione.
«Quando lavoro ai miei testi so che devo raccontare una storia, con un inizio, un centro e una fine, che la gente possa seguire e che la educhi. Che sia su Cristoforo Colombo o la fine della guerra o vivere bene, la musica deve portare al suo interno qualche forma di educazione – se la gente conosce queste storie, può pensare in maniera corretta» - Burning Spear
Anni di silenzio discografico, dicevo prima, interrotti dalla pubblicazione del singolo “Mommy” che ci ha riportato tutte le sonorità vintage e la profondità musicale di Spear ma con strumentazione e suoni ammodernati, musica nuova che non ci ha deluso.
Il brano è incluso nella track list di No Destroyer, insieme ad altre undici canzoni. Dunque il momento è giusto, l’attesa è finita: No Destroyer è “classico Spear”, con orchestrazioni riccamente arrangiate, performance vocali solide e testi efficaci.
Si parte con “The Spear”, un pezzo di funky roots sinuoso con la sua firma, la sezione fiati dondolante (Greg Glassman alla tromba, Jason Jackson al trombone e Jerry Johnson al sax). La title track ha un arrangiamento percussivo intricato al di sopra della batteria di Karl W. Wright, mentre "Independent" ci riporta ai fasti del passato, strutturandosi intorno a una piacevole linea di chitarra e all’organo elettrico, mentre il saluto di Spear alla sua indipendenza sia musicale sia spirituale è assolutamente potente.
Dopo un paio di brani interlocutori, ecco che “Obsession” cambia l’inerzia di No Destroyer, focalizzandosi su un arrangiamento maggiormente soul, con complesse progressioni di accordi, chitarre funky e organo elettrico. “Open the Gate” mostra la destrezza musicale di Spear: un arrangiamento che attinge al blues, con le sue chitarre ritmate ma smorzate e la batteria tamburellante a sorreggere quest’ode musicale a Bob Marley e ad altri grandi personaggi scomparsi della storia del reggae (Gregory Isaacs, Sugar Minott e gli Skatalites originali, tra gli altri).
“No Fool”, “Negril” e “Talk” ci conducono in maniera indolore alla conclusiva “They Think”, brano strutturato come un salmo evocativo, un chant, con Burning Spear che canta di auto-determinazione e forza su una progressione senza spigoli di accordi del basso di Dave Selim Reichley: una conclusione appropriata.
Quantunque la performance di Spear non possa raggiungere le vette mozzafiato e affascinanti dei suoi lavori degli anni Settanta, è comunque quasi sempre impeccabile. La maggior parte delle canzoni di quest’album può essere considerata tipica per l’uomo che è dietro a classici come “Social Living”, “Slavery Days” e “African Postman”. Trovo rassicurante che dopo tutti questi anni nel music business The Spear dia ancora vita a quel tipo di canzoni che all’ascolto continua ad avere un fascino inalterato.
Come ho già scritto, l’attesa è terminata e Burning Spear ha premiato la nostra pazienza con un lavoro coinvolgente e convincente che ci spiega ancora una volta perché lui è una leggenda vivente. Winston Rodney, Burning Spear. Open the gate to reggae music!
P.S. Per chi fosse interessato segnalo che il 20 ottobre Burning Spear sarà in concerto allo Zénith di Parigi.