Burial, una sinfonia del XXI secolo
Nel nuovo Antidawn Burial evoca un’odissea nottambula in ambiente metropolitano
Dopo aver concentrato nel dicembre 2019 la propria produzione degli anni Dieci in un’imponente collezione antologica, l’elusivo William Emmanuel Bevan – alias Burial – aveva pubblicato un paio di pezzi firmati insieme a Thom Yorke e Four Tet, altrettanti in un lavoro condiviso con Blackdown e infine i due contenuti nel singolo della scorsa primavera: “Chemz” e ”Dolphinz”, quest’ultimo – antitetico alla verve esuberante del primo – unico indizio della direzione che stava per imboccare.
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Assegnato tecnicamente al rango di Ep, con le sue cinque tracce estese complessivamente a un passo dai tre quarti d’ora Antidawn è in realtà la singola uscita più rilevante dai tempi di Untrue, secondo album datato addirittura 2007. «Riduce la musica di Burial a vapore», chiosa la breve presentazione fornita dall’editrice Hyperdub. E in effetti, eccezion fatta per alcune micropulsazioni quasi impercettibili in “New Love” e “Strange Neighbourhood”, non vi sono ritmi a guidarne lo svolgimento e il suono è generalmente impalpabile, fra scariche di elettricità statica e rumori assortiti: l’innesco di un accendino, tuoni in lontananza, pioggia, vento, una porta che si chiude, sfrigolii da vecchio vinile…
Fulcro della messinscena diventano dunque le voci, come captate da una radio a onde corte: distanti, deformate, sovente incomprensibili, benché maggiormente decifrabili rispetto alle volte precedenti: volendo cercare un senso, conviene allora affidarsi alla narrazione subliminale che trapela in controluce ascoltandole. Si ha così la sensazione di avventurarsi in un’odissea metropolitana ambientata nottetempo e scandita dagli argomenti esposti in ciascun brano. Quello iniziale, riferito allo “strano vicinato”, sembra alluda a incontri accidentali: “Hai incrociato il mio cammino” e “Passeggiando nelle strade”, frasi incastonate su un fondale ricavato dagli accordi remoti di un organo dal pathos liturgico.
L’episodio che dà titolo all’opera, inscritto in un diafano scenario ambient, suggerisce invece una condizione di smarrimento alienato: “Ho sentito un brutto sapore”, “Nessun posto dove andare”, “Lasciami entrare”, prima di sciogliersi in chiusura su accenti da ninnananna. Il contatto umano è al centro del seguente “Shadow Paradise”: “Lasciati abbracciare”, “Vieni da me, amore mio, portami nell’oscurità”, in un’atmosfera di solenne sacralità che tuttavia incorpora fra le righe uno stilizzato crescendo house.
Arriva poi il “nuovo amore”, sentimento in forma di ectoplasma sostenuto da una controllata progressione melodica: “Libero al di là di tutto”, “Ciò che voglio davvero è starti vicino”. Finché giunge, all’epilogo, la sommessa serenità di “Upstairs Flat”: un gospel ultraterreno cullato “nelle tue amorevoli braccia”.
Situato cronologicamente nella “contr’alba”, il racconto esprime un’algida bellezza da paesaggio invernale, con geometrie frattali disegnate dalla galaverna, ed esibisce la consistenza incorporea di un’esperienza onirica, riecheggiando i Disintegration Loops creati anni addietro da William Basinski. La si consideri però ciò che è nella sostanza: una sinfonia del XXI secolo.