Big Red Machine, cercando un nuovo mainstream

Nel lavoro dei Big Red Machine di Aaron Dessner (The National) e Justin Vernon (Bon Iver), fa capolino la diva Taylor Swift

Big Red machine
Disco
pop
Big Red Machine
How Long Do You Think It’s Gonna Last?
Jagjaguwar
2021

Poco dopo aver riacceso la Big Red Machine, metafora del cuore che palpita scelta per intestare un progetto in origine estemporaneo, i due conducenti Aaron Dessner e Bon Iver. hanno dovuto considerare alcune novità.

– Leggi anche: La Grande Macchina Rossa di Bon Iver e Aaron Dessner

Anzitutto gli effetti della pandemia, paradossalmente confortanti in termini personali: «Per uno come me, che ha viaggiato quasi ininterrottamente per vent’anni, trascorrerne un paio in casa è stata una benedizione. Così ho scritto più musica di quanto abbia fatto mai in vita mia», ha confessato in un’intervista al “New York Times” Aaron Dessner. E poi il salto di status rappresentato per lui dalla partnership con Taylor Swift, di cui ha coprodotto la coppia di dischi – Folklore, insignito di Grammy Award, ed Evermore – che durante il 2020 ne ha mostrato il sorprendente riposizionamento in chiave “alternativa”.

Logica conseguenza è il doppio cammeo della cantautrice nel nuovo lavoro dei Big Red Machine: in “Birch” – dove duetta con l’altro “macchinista”, Justin “Bon Iver” Vernon – e “Renegade”, di gran lunga l’episodio più pop dell’intera raccolta.

Tutto ciò ha modificato gli equilibri rispetto all’album antecedente, datato 2018: Vernon è ora in posizione più defilata, benché il suo inconfondibile falsetto, al solito filtrato elettronicamente, moltiplichi a tratti il coefficiente emotivo dell’opera, ad esempio nella toccante “Reese”. È tuttavia una voce delle tante che s’incontrano strada facendo, tra le quali spiccano quelle della folksinger Anaïs Mitchell, cui spetta il compito di aprire e chiudere la sequenza con “Latter Days” e “New Auburn”, e di Robin Pecknold, che imprime l’orma dei Fleet Foxes interpretando insieme a lei l’alata “Phoenix”.

Più di ogni altra, conta però quella di Dessner: impegnato per la prima volta in assoluto al microfono. Accade in “Magnolia” e “Cincinnati”, rievocazione della gioventù trascorsa nella cittadina dell’Ohio che musicalmente sembra voler emulare l’intimismo di Elliott Smith, ma soprattutto in “Brycie”, espressamente dedicata al gemello con il quale condivide la direzione artistica dei National, incaricato qui di curare gli arrangiamenti.

L’eco della band madre si coglie nei tipici accordi in minore al pianoforte che indirizzano alcune canzoni, da “8:22am” a “June’s a River”, e nel tono generalmente malinconico del disco. In definitiva, e a dispetto della pletora di ospiti coinvolti nell’operazione, How Long Do You Think It’s Gonna Last? ha carattere evidentemente autobiografico: Aaron Dessner parla di sé, del proprio mal di vivere e di amici perduti (“Hutch” è una dolente elegia in memoria di Scott Hutchison, punto focale degli scozzesi Frightened Rabbit, morto suicida nel 2018: “Come hai smarrito la rotta? E cosa puoi dirmi adesso?”), della famiglia di provenienza (la copertina è ricavata dal trattamento grafico di una fotografia d’epoca che lo ritrae accanto al fratello Bryce e alla sorella Jessica) e di quella attuale (un pezzo è per la figlia Mimi).

È appunto la tensione dialettica fra tale dimensione individuale e l’elaborazione viceversa collettiva dei contenuti a rendere in un certo senso contraddittorio l’album, che suona comunque più coeso e cantabile del precedente: in fin dei conti “mainstream”, ancorché di natura non convenzionale.

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