Beirut nel circolo polare artico

Il nuovo album del girovago statunitense Zach Condon prende nome da una remota isola norvegese: Hadsel

Beirut
Disco
pop
Beirut
Hadsel
Pompeii
2023

Il 37enne statunitense Zach Condon è artista mentalmente nomade. Scelse ad esempio d’intestare il proprio progetto musicale a Beirut, senza esserci mai stato: «La immagino come una raffinata metropoli immersa in un contesto musulmano: un luogo in cui le cose si mescolano», disse allora.

E al debutto discografico, segnato da un’impronta balcanica e intitolato Gulag Orkestar, trovò il tempo di spedire – dichiarava una canzone – “Postcards from Italy”. In seguito, al nostro paese hanno alluso l’etichetta da lui creata nel 2009 onorando Pompei e l’album precedente, Gallipoli, ossia il posto nel quale aveva cominciato a germinare.

Nelle sue mappe geografiche compare adesso un’isola dell’arcipelago di Vesterålen, all’estremo nord della Norvegia, sopra il Circolo Polare Artico: Hadsel, appunto, incubatrice dell’opera. Ci era arrivato spinto dallo sconforto, dopo aver dato un taglio ai concerti: angosciato dalla vita in tournée («Non sono un performer, non mi viene naturale esibirmi dal vivo», confessava, rivelando inoltre di sedare l’affanno con l’alcol) e afflitto dalle complicazioni di una laringite che rischiava di comprometterne la carriera.

In un’intervista al magazine tedesco “Kulturnews”, ha spiegato: «Volevo la notte polare. Fin dall’adolescenza il giorno significava per me paura, stress e caos: solo di notte trovo pace e ritrovo me stesso». E dunque: «Porta questa notte nelle tue ossa, posami sul mio remo, posso annegare fra le tue braccia a riva», dicono i versi del brano che apre il disco e gli dà nome: reso solenne dagli accordi di organo (registrato dentro una chiesa locale) su cui si elevano il falsetto della voce e la melodia struggente della tromba.

Quest’ultima è strumento elettivo di Condon, nato e cresciuto in New Mexico, fra gli echi delle orchestrine mariachi, al pari dell’ukulele, che affiora qui in versione baritono durante “So Many Plans”, ballata avvolgente con un corno francese sullo sfondo.

"Avevamo così tanti progetti, al riparo dal vento, la testa nella sabbia”, dice il testo, riferendosi all’epoca del lockdown, quando l’autore era rientrato a Berlino, da alcuni anni sua dimora.

L’elaborazione del lavoro è proseguita nella capitale tedesca e da ciò deriva verosimilmente “Süddeutsches Ton-Bild Studio”, scarno episodio di natura esistenzialista: “Non riesco a credere a ciò che ho detto, non riesco a sanguinare in altro modo, non riesco a essere sereno ora, non riesco a credere in me stesso”.

L’attenzione resta concentrata comunque sul paesaggio glaciale di Hadsel: “Stokmarknes” cita il capoluogo dell’isola, “Melbu” – strumentale affidato al suono dell’armonium – è un villaggio nei paraggi e “Spillhaugen” ci conduce verso l’omonima località collinare sulla cadenza esotica di una batteria elettronica che ricorda certe invenzioni disorientanti di Martin Rev nei Suicide, come accade pure in “The Tern”, con il canto in volo sul registro dell’introspezione (“No, non è troppo tardi per capire dove sei”).

E anche se alla fine, in “Regulatory”, prototipo bislacco ed eloquente del pop naïf targato Beirut, “rinascono le solite bugie, rinasce la solita vita”, il viaggio non è stato inutile: il diario sonoro che lo documenta è pura gioia per l’orecchio e costituisce un ascolto perfettamente intonato alla stagione autunnale.

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