Alessandro Stefana, l'Asso della chitarra

Il nuovo lavoro da solista del musicista bresciano è stato prodotto da PJ Harvey

Alessandro Asso Stefana
Foto di Roberto Cavalli
Disco
oltre
Alessandro “Asso” Stefana
Alessandro “Asso” Stefana
Ipecac
2024

Chitarrista prediletto da Vinicio Capossela e titolare del trio Guano Padano, nel nuovo lavoro intestato a suo nome il bresciano Alessandro Stefana, detto “Asso” per rimarcarne il valore, allarga ulteriormente i propri orizzonti, dopo aver esplorato in passato la dimensione internazionale collaborando con Mike Patton (al progetto Mondo cane), Calexico e Bill Frisell.

In questa occasione, a fare notizia non è tanto il marchio californiano Ipecac impresso sul disco (già presente in un paio dei lavori di gruppo), quanto la fama di chi ne è produttrice esecutiva, ossia PJ Harvey.

È una conseguenza della frequentazione avviata ai tempi di The Hope Six Demolition Project, penultimo album della cantautrice britannica, al quale “Asso” contribuì in misura rilevante, insieme all’altro campione nostrano Enrico Gabrielli, affiancandola poi dal vivo nella successiva tournée.

Ha confidato lei, a proposito, di essere affascinata dalla “musica misteriosa e incantevole di Alessandro Stefana”, che da parte sua – invece – le ha riconosciuto il merito di aver distillato nella circostanza “l’essenza autentica di ciascuna composizione”.

Da sempre sensibile all’ascendente della Tradizione Americana, conferma qui di saperne reinterpretare i codici in maniera originale, colorandoli sovente di sfumature cinematografiche: ad esempio in “Farewell to Dust”, dove al fraseggio portante del piano verticale è associata – con effetto vagamente “morriconiano” – l’eco remota di un violino, mentre “The Wandering Minstrel” – impreziosito anch’esso dall’intervento del violinista inglese Mikey Kenney – sembra replicare le atmosfere di Brokeback Mountain e nella malinconia languida di “Out of the Blue” – con la pedal steel in evidenza – si riverbera l’insegnamento impartito da Ry Cooder in Paris, Texas.

Il virtuosismo del protagonista sullo strumento si apprezza in particolare ascoltando l’agile fingerpicking imbastito in “The House” sulla falsariga di grandi maestri quali John Fahey e Leo Kottke.

Interrompe il flusso altrimenti esclusivamente strumentale la voce antica di Roscoe Holcomb, interprete rinomato del folk degli Appalachi scomparso nel 1981, resuscitato ricorrendo alle registrazioni conservate dallo Smithsonian Institute.

Accade in tre episodi consecutivi, nella seconda metà della sequenza: l’evocativo “Born and Raised in Covington”, il solenne “I Am a Man of Constant Sorrow” (standard bluegrass rispolverato dai Cohen nel film Fratello, dove sei?) e l’elegiaco “Moonshiner”, apice emotivo della raccolta.

Conclude l’opera, occupandone circa un terzo della durata, “Continental spazio”: brano aperto da un prolungato bordone d’organo dal sapore liturgico che sfocia in uno scenario ambient di scuola minimalista, ampliando così il raggio di un’azione sonora ammirevole sia negli intenti sia nella realizzazione.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

oltre

Il mito di Orfeo secondo Sarah Davachi

In The Head as Form’d in the Crier’s Choir la compositrice canadese trae ispirazione da Claudio Monteverdi e Rainer Maria Rilke

 

Alberto Campo
oltre

La morbida confusione di Mabe Fratti

Sentir Que No Sabes è l’inconsapevole capolavoro della violoncellista e cantante del Guatemala

Alberto Campo
oltre

Alessandra Novaga sulle orme di Tarkovskij

The Artistic Image Is Always a Miracle è il nuovo lavoro della chitarrista e compositrice milanese

Alberto Campo