Alan Sparhawk dopo i Low

White Roses, My God è un disco sofferto e sconcertante, il primo dopo la morte di Mimi Parker

Sparhawk
Disco
pop
Alan Sparhawk
White Roses, My God
Sub Pop
2024

White Roses, My God non costituisce il debutto da solista di Alan Sparhawk, ma è come se lo fosse: estraniato dal precedente Solo Guitar – raccolta di brani strumentali datata 2006 – sia in termini di caratteristiche sonore sia per l’enorme differenziale di senso. 

Si tratta infatti del primo lavoro realizzato dopo l’estinzione dei Low, resa inevitabile dalla scomparsa della compagna di vita e partner artistica Mimi Parker, avvenuta il 5 novembre 2022. 

Intervistato in estate da “The Guardian”, ha confessato: “Io ero solamente il motore, lei guidava”, oltre ad ammettere che “sto ancora cercando di capire il significato della sua morte”. 

Un processo di elaborazione del lutto affrontato anche attraverso la musica, esibendosi dal vivo individualmente o in compagnia dei figli, la 24enne Hollis e il 19enne Cyrus, insieme al quale ha organizzato il quartetto Derecho Rhythm Section, specializzato in un repertorio a base di cover (Parliament, Funkadelic, Roy Ayers e Childish Gambino, le fonti) e originali (rintracciabili su Bandcamp). 

È stato appunto armeggiando con le apparecchiature accumulate in sala prove per la prole che ha creato gli embrioni del nuovo materiale, muovendosi in bilico “fra caos e ingenuità”: “Mi ritrovavo a esplorare di nascosto le possibilità di strumenti che non conoscevo, a improvvisare, a girare le manopole finché usciva fuori qualcosa di convincente, dando forma a una canzone”. 

Il risultato, all’ascolto, può sembrare sconcertante: distante com’è dall’esperienza dei Low, che pure negli ultimi dischi – Double Negative (2018) e Hey What (2021) – alteravano le proprie registrazioni per mezzo delle macchine elettroniche. Disorienta in particolare la voce, filtrata sistematicamente da Vocoder e Auto-Tune: “Cerco di usare la mia, ma non la voglio sentire, perciò avevo bisogno di trovarne un’altra”, ha spiegato preliminarmente. Sarà forse per questa ragione che “Get Still”, ombrosa elegia da Intelligenza Artificiale posta in apertura di sequenza, comincia ponendo un interrogativo retorico: “Volete un grosso brivido?”.

 È tuttavia il successivo “I Made the Beat” a segnare il distacco dal passato: sull’incalzante groove sintetico si adagia una filastrocca robotica degna dei Daft Punk che ripete ossessivamente la frase del titolo. Né a decifrane le intenzioni dell’autore giovano i testi più elaborati, in genere flussi di coscienza dall’apparenza sconclusionata: “E quando hanno lasciato che il lago mangiasse lo stereo, sull’acqua alla fine dell’invasione, avevano il pensiero di tutti gli elettori avversi nel mondo intero”, recita ad esempio la mesta ninnananna intonata in “Not the 1”. 

Del resto, “le parole sono un’amara ricerca di acqua da combattere, dove non chiederei luce”, afferma “Can U Hear”, ambientato in uno scenario da gotico “industriale”.

 Qui e là traspaiono scorci narrativi meno sibillini: “Non lasciare che l’odio e la fama spadroneggino”, ammonisce “Black Water”, scosso da sincope electro-funk. Oppure: “Rimango ancora in questo terrore, camminando, spingendo e fissando”, racconta “Brother”, nenia narcotica nella quale affiora – unico caso in assoluto – la chitarra elettrica. 

L’episodio maggiormente nitido è a conti fatti “Station”, dolente memoriale di un “narratore nell’era della causalità”: “Posso appagarmi con le piccole cose di cui mi circondo”, dice all’inizio, mentre in chiusura sbocciano “rose bianche”, il fiore prediletto da Mimi Parker. E c’è poi “Heaven”, “un posto desolato se sei solo”: distillato di spleen in miniatura che ritroveremo in altra veste nel prossimo album di Sparhawk, prodotto con il gruppo di folk tradizionalista Trampled By Turtles. 

Probabile stia agli antipodi di White Roses, My God, dove a un’enunciazione del cordoglio affine a quella espressa da Nick Cave in Ghosteen e Skeleton Tree corrisponde un voltafaccia musicale paragonabile allo “scandaloso” Neil Young di Trans.

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