2020, odissea nello spazio con gli Avalanches
We Will Always Love You è l'opera terza degli australiani Avalanches, nel segno di una densa spensieratezza
E tre! C’erano voluti sedici anni per dar seguito all’epico esordio datato 2000, Since I Left You, con Wildflower e ne sono bastati invece appena quattro per arrivare a We Will Always Love You. Un tracciato biografico che ha reso in qualche modo leggendari gli Avalanches: gruppo australiano ristrettosi nel tempo ai fondatori Robbie Chater e Tony Di Blasi, affiancati nella circostanza dal connazionale Andrew Szekeres, già forza motrice dei Midnight Juggernauts.
Specialità della casa – è noto – sono i campionamenti: oltre 900 nel primo album, vertiginosa giostra “plunderfonica”. Novità del sospirato successore erano state le voci di alcuni ospiti: fattore divenuto ora fulcro delle operazioni. La quantità di cammei è impressionante e potrebbe comunicare una sensazione di dispersività, come ad esempio accade certe volte ai Gorillaz.
Così non è affatto, però, e proviamo a spiegare perché. Cominciando dalla fine: “Weightless” si basa sul segnale intermittente – tipo codice Morse – indirizzato nel 1974 dall’osservatorio astronomico di Arecibo a ipotetici ascoltatori alieni. Nel team guidato dall’astrofisico statunitense Frank Drake figurava il collega Carl Sagan, responsabile tre anni dopo dei due Voyager Golden Records spediti nello spazio: sorta di “mixtape” dello scibile umano in cui era stata inclusa la registrazione delle onde cerebrali di Ann Druyan, scrittrice e divulgatrice, nonché da poco compagna di Sagan. È un’immagine di quest’ultima, ripresa da un monitor e poi rielaborata, a illustrare la copertina di We Will Always Love You, che prende titolo da un verso di “Hammond Song” del dimenticato duo femminile The Roches, incorporato – accanto a un sample da “I’ll Take You Any Way That You Come” di Smokey Robinson & The Miracles – nell’intelaiatura del brano omonimo: crepuscolare numero di R&B animato dall’apparizione di Blood Orange.
Tra i frammenti riconoscibili impiegati nell’occasione svetta quello espiantato dal classico degli Alan Parsons Project “Eye in the Sky” che introduce al fascino cristallino di “Interstellar Love”, impreziosito dall’ugola del texano Leon Bridges, mentre nel malinconico soul di “Reflecting Light” Sananda Maitreya (alias Terence Trent D’Arby) duetta con l’ectoplasma vocale della cantautrice folk britannica Vashty Bunyan captato da “Glow Worms”.
Il campionario è vasto, dicevamo: dall’euforica verve pop di “We Go On” (dove si avvista l’ex Clash Mick Jones) alle delicate sfumature psichedeliche di “The Divine Chord” (frutto della partnership transatlantica fra Johnny Marr e MGMT), quando a fornire impulsi dance badano viceversa, ondeggiando fra house e disco, “Overcome” e “Music Makes Me High”, con apice nell’odissea ritmica di “Wherever You Go”, architettata dal Re Mida Jamie xx.
Completando la carrellata sui pezzi chiave, citiamo “Take Care in Your Dreaming”, con borbottio di Tricky (al microfono pure in “Until Daylight”) e micidiale intervento rap di Denzel Curry, e “Running Red Lights”, appiccicosa cantilena intonata da Rivers Cuomo dei Weezer in memoria dell’icona “indie” David Berman.
Più dei singoli episodi, cuciti sul piano narrativo da otto brevi interludi, conta tuttavia l’effetto d’insieme, che quanto esposto finora – in termini di densità del concept, entità delle comparsate e complessità del collage sonoro – potrebbe far sembrare zavorrato dall’eccesso d’ingredienti. Al contrario, We Will Always Love You brilla per la leggerezza con la quale scorre nell’arco di 72 minuti: non un disco spensierato, semmai sereno, esattamente ciò di cui abbiamo bisogno adesso, per alleviare il peso di un anno che pare non finire mai.