Ci sono compositori del passato ricordati più per la propria attività teorico-didattica che per le proprie opere, come è il caso di Adrian Willaert, il fiammingo che dal 1527 al 1562 fu maestro di cappella della basilica ducale di San Marco a Venezia. Alla sua scuola si formarono alcuni dei più importanti musicisti e teorici rinascimentali, ma già prima del compositore nativo di Bruges o Roeselare, piccola città delle Fiandre occidentali, un altro cantore oltremontano era stato nominato dai Procuratori di San Marco alla guida dell’istituzione musicale più prestigiosa della Serenissima, Petrus de Fossis; e prima ancora, nel Quattrocento, altri franco-fiamminghi avevano operato in posizione privilegiata nelle più prestigiose cappelle musicali delle corti italiane.
LEGGI: Lo straordinario panorama sonoro della Venezia del Cinquecento
Anche se non abbiamo scritti teorici di Willaert, il riflesso della sua cultura musicale si può cogliere nei trattati dei suoi allievi Nicola Vicentino e Gioseffo Zarlino, che rappresentano le massime autorità in materia di speculazione musicale cinquecentesca.
La produzione di Willaert è ampia e consistente e comprende una decina di messe, e numerosi inni, salmi, mottetti, chanson, madrigali e canzoni villanesche alla napolitana, oltre a qualche ricercare strumentale, ma nonostante la fama e il prestigio di cui ha goduto in vita, nei programmi dei concerti e delle edizioni discografiche di musica antica odierne il suo nome non compare con la stessa frequenza di quella degli altri musici oltremontani. Che ne è oggi del Famosissimi Adriani Vvillaert, chori divi marci illustrissimae Reipublicae Venetiarum magistri come figura nel frontespizio del primo libro di mottetti a quattro voci stampato a Venezia nel 1539?
Ben venga dunque l’evento riservato ad un pubblico di invitati programmato in Basilica la sera del 5 settembre in coincidenza del giorno dell’inaugurazione della mostra allestita a Palazzo Ducale Da Tiziano a Rubens. Capolavori da Anversa e da altre collezioni fiamminghe, durante il quale la musica di Messer Adriano risuonerà nel concerto della Cappella Marciana affiancata dall’ensemble strumentale La Pifarescha, diretti da Marco Gemmani.
Il titolo del concerto Willaert e la scuola fiamminga a San Marco, corrisponde a quello del disco registrato dall’etichetta indipendente Concerto Classic in occasione della mostra, anche se i due programmi differiscono parzialmente. Nella esecuzione marciana sono previste anche musiche di Claudio Monteverdi non presenti nella incisione discografica, per l’esattezza nella loro veste di travestimento spirituale operata dal religioso milanese Aquilino Coppini che attingendo prevalentemente ai capolavori del Quarto e Quinto libro di madrigali, sostituì i testi profani originali in italiano con quelli devozionali in latino pubblicandoli nelle sue raccolte di Musica di Claudio Monteverde fatta spirituale. La loro presenza rappresenta un riferimento cronologico all’epoca di Rubens, per creare una simmetria con i contenuti della mostra.
Parte delle musiche contenute nel disco sono state registrate per la prima volta come ad esempio uno dei mottetti scritti per la liturgia di San Marco in onore dell’evangelista diffusore del verbo divino, Quasi unus de paradisi, e Ave dulcissime Domine di Willaert, contenuti nel suo primo libro dei mottetti a quattro, o Beato mi direi, Tantum ergo e Sub tuum praesidium del suo allievo Cipriano de Rore.
Anche nel concerto, le musiche verranno eseguite in parte con gli strumenti secondo una prassi in uso all’epoca, alternate a esecuzioni in parti reali esclusivamente a cappella.
Nella sua veste stabile oggi la Cappella Marciana è composta da una ventina di cantori e da un gruppo strumentale che comprende tromboni, un trio di cornetti e una tiorba, e partecipa con i suoi programmi musicali a tutte le Messe Capitolari Solenni, sia quelle domenicali che per le feste comandate, facendo vivere l’aspetto musicale della liturgia che rese Venezia uno dei più importanti, prestigiosi e innovativi luoghi della storia della musica rinascimentale.
Abbiamo chiesto a Marco Gemmani quali sono gli aspetti più significativi della esecuzione di queste polifonie che in alcuni casi si ascolteranno per la prima volta in epoca moderna.
L’attività musicale della cappella musicale della Basilica di San Marco ha origini molto antiche.
«Dal 1316 non ci siamo mai fermati, sappiamo tutto della cappella marciana che è sempre rimasta attiva, ininterrottamente. Già a partire dal 1830 circa si è ricominciato a cantare Monteverdi, e ad esempio c’è una messa di Lotti che si canta dal 1720, anche se da quando la dirigo ho favorito una massiccia reintroduzione della musica del Cinquecento e Seicento. Nel nostro archivio ci sono musiche di tutte le epoche ed è dunque è facile che si possano presentare composizioni mai ascoltate in epoca moderna».
«Dal 1316 non ci siamo mai fermati, sappiamo tutto della cappella marciana che è sempre rimasta attiva, ininterrottamente».
«Nel concerto del 5 settembre eseguiremo anche il Beati omnes di Berchem e Phinot, che erano collaboratori di Willaert a San Marco, e che da allora non si era mai più ascoltato in Basilica. I cori spezzati tanto citati dai testi di storia della musica non sempre corrispondono al doppio coro come si intende abitualmente. Zarlino attribuisce a Willaert il perfezionamento dello stile policorale, ma la storia dei salmi a cori spezzati è sempre rimasta controversa. Tra salmi spezzati, cori battenti, e doppio coro alla veneziana ci sono delle differenze. Ciascun compositore in un certo senso ha pensato a modo suo il doppio coro che si è trasformato nel tempo. Il doppio coro alla veneziana prevede quattro solisti e il coro che si dispongono tutti insieme nello stesso punto della Basilica. Nel libro del cerimoniale di metà Cinquecento commissionato dal doge a Bartolomeo Bonifacio si descrive e si spiega quando e come bisognava cantare in doppio coro a San Marco, e c’è anche un riferimento a Willaert. Questo volume verrà esposto nella sezione musicale della mostra di Palazzo Ducale».
Cos’altro contiene questa sezione?
«Nella mostra c’è una sezione musicale nella quale sono presenti strumenti della Accademia Filarmonica di Verona, parte dei quali cinquecenteschi e intatti, che sicuramente devono aver suonato anche musiche di Willaert. Ci sono anche spartiti, partiture manoscritte delle Passioni, che a San Marco venivano eseguite in modo particolare rispetto alle altre chiese d’Italia. Inoltre a fianco del cosiddetto “Cerimoniale Bonifacio” che nella sua interezza è praticamente inedito, abbiamo inserito anche il Te Deum Patrem di Willaert che vi è citato. Prima della sua versione a San Marco veniva suonato seguendo la prassi dell’alternatim, distribuito alternativamente tra coro e organo, ma nella liturgia della vigilia di Natale si decise di adottare quello di Willaert per la sua bellezza. Al suo interno c’è un canone triplo che noi eseguiremo a cappella, mentre le altre parti verranno intonate solo dagli strumenti, tranne una, con la voce e lo strumento».
«Nel concerto percorreremo i vari luoghi dove Willaert e la cappella musicale si disponevano a seconda dell’importanza della cerimonia liturgica. Ad esempio useremo tutti gli spazi in alto, la cantoria e le lunette, poi l’ambone, detto volgarmente bigonzo, e visto che la cappella cantava anche giù a terra, un tempo dietro l’iconostasi, ci disporremo anche in basso».