Debutta il 14 marzo 2018 (con repliche fino al 20) Wake, la trentunesima opera di Giorgio Battistelli. Debutta a Birmingham, grazie alla Birmingham Opera Company – "regno" di Graham Vick e fucina di sperimentazione sull'opera contemporanea – con la Birmingham Opera Company Orchestra e Birmingham Opera Company Chorus and Actors, sotto la direzione di Jonathon Heyward, con cast ed esecutori in parte amatori, e una scenografia allestita tra quattro tir alla periferia della città inglese. Il libretto, che rilegge la vicenda biblica di Lazzaro, è di Sarah Woods.
Giorgio Battistelli ci ha parlato della sua ultima creazione con grande entusiasmo, quell'entusiasmo che è dei giovani, che tradisce la passione con cui fa il suo mestiere.
«È un'opera diversa dalla mia precedenti».
Perché?
«Perché punta molto sul concetto di teatro musicale, vero teatro musicale nel senso di azioni che producono suono. È un po' meno strutturata in maniera classica anche se lo è comunque in forma molto chiara. Molto rigida. È a numeri, in cinque atti e tante sotto scene. È particolare perché – questo è forse il concetto fondamentale – scrivendola ho dovuto tener molto presente le richieste dei committenti, l'opera di Birmingham, cioè di concepire un’opera secondo la loro filosofia: una parte del cast di professionisti, l’altra amatoriale che hanno chiesto di poter partecipare a quest’evento».
Come è stato lavorare a Birmigham?
«È impressionante quello che è riuscito a creare Graham Vick. È un'operazione culturale che porta avanti da dieci anni. Hanno prodotto Idomeneo allo stesso modo… Hai il coro (cento elementi nella mia opera!) di cui dieci-quindici sono professionisti mentre il resto cantanti amatoriali che da mesi che stanno provando. Trovi gente di ottant'anni come di venti-trenta che si mescola con i professionisti. Lo stesso nell'orchestra, dove siedono spalla a spalla i professori d’orchestra e studenti ventenni».
«È un'opera diversa dalla mia precedenti».
«Lo stesso vale per gli attori: sono cinquanta quelli coinvolti in questa produzione! Alcuni di loro mi sembrano molto giovani: rifugiati eritrei arrivati a Birmingham due settimane fa, che Vick ha portato nella produzione. Comparse dell’organico. Quindi in questo senso è un'opera diversa dalle mie precedenti, perché scrivendola ho dovuto sempre tener ben presente che stavo scrivendo per alti professionisti ma anche con persone che si mettevano alla prova, che avevano solo pochi mesi per prepararsi. È un concetto che nell'estetica moderna viene chiamato "semplessità", mescolanza di semplicità e complessità, un aspetto, una faccia, un’angolatura molto particolare del nostro presente. Questo mi ha affascinato».
«Poi trovo straordinaria l'idea di essere in uno spazio industriale alla periferia di Birmingham con quattro tir ai quattro lati aperti che accolgono attori e cantanti mentre il pubblico in piedi gira tra queste quattro isole che producono azione, che producono musica. C'è anche una parte dell’orchestra (degli ottoni) che si muove tra il pubblico. Il canto di Maria sarà una specie di processione, con cantanti bravissimi, superbi».
Come viene usato tutto questo organico?
«I quattro personaggi centrali sono Gesú, Lazzaro, Marta e Maria. Quindi un coro di cento elementi, e cinquanta attori, che sono il popolo. L'organico orchestrale, benché non grande, è abbastanza particolare: una quarantina di elementi con molti ottoni – flauto, oboe, fagotto, controfagotto, quattro corni, quattro trombe, tube wagneriane, contrabbasso, due pianoforti in scena. E un quintetto d’archi. Curioso questo quintetto d'archi con quella massa di fiati dietro, no?».
Ci racconti l'idea dietro la scrittura di Wake, e del libretto di Sarah Woods.
«È un lavoro davvero toccante, tutto concentrato sull’emozione, sulla ritualità. E poi la tematica, devo dire veramente straordinaria: il simbolo di Lazzaro, forse il miglior amico di Gesù, simbolo della rinascita ma forse anche, proiettandolo nel nostro presente, nella contemporaneità... dobbiamo pensare che in realtà ci troviamo a dover affrontare il dramma di Lazzaro oggi. Chi o cosa è Lazzaro? Sicuramente, da una parte è la scarsa coscienza politica. Il wake che risveglia da cosa? Da un’assenza di una sensibilità sociale e politica. C'è soltanto un egoismo spietato, non riuscire a guardare l’altro – appunto, le persone che navigano, i diversi da te».
«Chi o cosa è Lazzaro? Sicuramente, da una parte è la scarsa coscienza politica».
«E c'è l’altro aspetto tipico dei paesi fortemente industrializzati, che da noi in Europa sta arrivando con una presenza devastante: quella che in Giappone si chiama la generazione dei hikikomori, l'estraniazione dei giovani dal mondo, un ritirarsi nel buio, guardare il mondo dalla finestra… una piaga micidiale, che sta arrivando anche da noi. È una patologia difficile da diagnosticare perché non è una psicosi ma una forma di estraniazione che in molti casi viene dall'assuefazione al gioco. Questi ragazzi che giocano, giocano, giocano, sviluppano un senso di atrofia dal mondo, da quello che accade. Allora se si vuole è una simbologia che appartiene – è un'interpretazione molto osé – alla letteratura, alla simbologia. E poi il teatro ti permette di fare queste deduzioni, se si vuole anche questi tradimenti… C'è un'interpretazione di una psicanalista lacaniana francese che sostiene che Lazzaro – così mi è venuta in mente l’idea del collegamento con la realtà – non fosse morto. Non era morto, era semplicemente una figura catatonica, la figura di un giovane che aveva rinunciato a vivere, che si era chiuso nell’oscurità. Questa esortazione di Gesù, il richiamarlo alla vita, è un’esortazione appunto, un incoraggiamento ad affrontare la vita».
«È chiaro che oggi la figura di Lazzaro coglie l'immaginazione trasversale di tante culture. Vedere un coro di 100 elementi formato da pakistani, indiani, eritrei, africani, nord africani, nigeriani… è una cosa impressionante, questa mescolanza. Questa globalizzazione. E tutti che partecipano alla morte di Lazzaro. È toccante».
Una lettura da uomo di sinistra della società contemporanea. Perché ha scelto un tema biblico per interpretare i fenomeni dell'oggi nella nostra società?
«Perché è la prova che queste pagine antiche non appartengono soltanto alla cultura cristiana: figure, un po' come quella di Lot, che si ritrovano addirittura nel Corano. In culture così diverse. Credo che un’attualizzazione dei testi antichi, del teatro greco, dei poemi epici la si possa fare perché raccontano temi universali. Si trovano sempre agganci con la contemporaneità. Così come in queste due pagine bibliche, evangeliche, sulle quali ho lavorato: Lot e Lazzaro. Ho trovato agganci con un’attualità spaventosa, come se quei testi fossero dei simboli, emblemi che permettono di leggere, comprendere meglio il nostro tempo. Io credo che sia questa la potenza, la forza dei testi epici. Quando leggi Sofocle, quando leggi i grandi testi del passato, riesci a interpretare meglio il tempo in cui viviamo. Non c'è nessuna interpretazione di tipo teologico, di difesa della visione cristiana. Non è assolutamente questo«.
«Nelle bibliche sulle quali ho lavorato ho trovato agganci con un’attualità spaventosa, come se quei testi fossero dei simboli, emblemi che permettono di leggere, comprendere meglio il nostro tempo».
«È tutto basato, invece, sulla tolleranza, sull’accoglienza. Alla fine Lazzaro parte con le sue due sorelle, si allontana da questo mare dell’umanità: tutti l'hanno pianto, tutti gioiscono per la sua rinascita. Rientra. È bellissima questa scena perché Lazzaro rientra dall'esterno dell'hangar. Batte fortissimo dei colpi. Gli si apre questa serranda. Una saracinesca enorme: siamo all’esterno, in mezzo alla strada, alla periferia di Birmingham. Ed entra lui vestito di bianco accompagnato da tante persone che si sono riunite fuori, gente che abita in quella zona che entra nel teatro. Insomma c'è una connessione con la realtà di oggi. Poi può certamente anche colpire il fatto che Gesù sia un nero. Sono neri anche Marta e Lazzaro. Ma sono neri che vengono da etnie diverse. Soltanto Maria è bianca. Questo sbilanciamento, spaesamento – anche iconografico – è molto forte. Perlomeno, io l’ho sentito molto forte abituato all'iconografia cristiana, a vedere Gesù, non dico il Gesù di Zeffirelli, quello di Pasolini o i Gesù che abbiamo visto in film precedenti, bello, sempre affascinante… Questo è un palestinese scuro, con la barba... Non è un bel ragazzo. Con degli occhi grandi, di una tenerezza… sembra un vitellone. E lo vedi lì che canta in una maniera divina. Straordinario. Allora anche questi spaesamenti, questi sfasamenti danno un senso, producono significati».
Il pubblico è coinvolto all'azione scenica?
«Sì, è continuamente costretto a spostarsi, a muoversi. Non può rimanere fermo perché l'azione scenica si svolge in quattro punti diversi, nei quattro tir che avvolgono il pubblico. Poi ci sono musicisti che passano, soprattutto nei primi due atti. Nel terzo, quarto e quinto atto, ci si ferma. L'orchestra si riunisce tutta in un solo punto. Un palco. Però l'azione scenica continua a svolgersi sui quattro tir. Quindi un'azione sovrapposta: quattro scene che si svolgono contemporaneamente in continuo ma che hanno a che fare tutte con lo stesso tema della tolleranza, della violenza… Nei primi quattro atti è tutto più o meno in costume, anche se non c'è una collocazione storica precisa».
«Il pubblico è una componente drammaturgica dell’opera».
«Ma nel quinto atto, quando tutti cercano Lazzaro perché deve essere tolto di mezzo (è scomodo, è la prova che Gesù è riuscito a ridargli vita), entrano i poliziotti. C'è un colpo di scena: si entra nell’attualità. Entrano in venti, trenta vestiti da poliziotti inglesi, con i manganelli. Incominciano a urlare. C'è un coinvolgimento che fa una certa impressione, al buio, con le luci… le persone che urlano, che vengono pestate, che cercano di salvare Lazzaro».
«All’inizio, quando la gente entra, a tutti viene dato un tulle, viene messo un drappo nero sulla testa in segno di lutto. Si vede soltanto attraverso il filtro della stoffa… vedere questi cinquanta attori nel grande spazio – mille posti – tutti che si muovono con questi drappi in testa, credo che sia anche questo forte dal punto di vista scenico. È un'alterazione del punto di vista percettivo perché si altera il modo di guardare l’opera, anche di ascoltarla: sei parte integrante tu stesso. Per questo dico che è un'opera differente dalle mie precedenti, cioè il pubblico è una componente drammaturgica dell’opera.
Quindi il luogo che mette il pubblico al centro dell’azione?«È una continuazione dell'esperienza del teatro degli anni Settanta, esperienza che non ho voluto dimenticare. Appartiene alla cultura sulla quale mi sono formato. La cultura teatrale, la cultura musicale, politica che forse oggi vale la pena recuperare. Sono state fatte cose straordinarie, a parte Ronconi – quelle cose meravigliose fatte a Torino sulla spazializzazione – di un teatro fisico, materico, alla Grotowsky, di Eugenio Barba. Insomma, le cose sono molteplici. Credo che questo lavoro abbia recuperato anche parte di quell’esperienza».